Le donne in Iran e l'accusa di Taraneh: 'Vi spiego perché la vostra commozione è superficiale'
Il taglio dei capelli ci piace tanto, ma non ci interessa approfondire la situazione iraniana. Una ragazza iraniana che vive in Italia ci spiega perché
Il 16 settembre la morte di Masha Amini accende un riflettore cosmico sull’Iran e le sue donne. Le piazze si riempiono di desiderio di diritti e protesta con una forza travolgente che arriva in ogni parte del mondo.
Le manifestazioni di solidarietà per la parte femminile di uno dei paesi peggio posizionati nel Global Gender Gap Report 2022 (peggio dell’Iran, 143esimo in classifica, fanno solo Congo, Pakistan e Afghanistan) si moltiplicano. Il primo ottobre, con il primo Global Day, 200 città in tutto il mondo scendono in piazza per portare solidarietà e chiedere all’occidente di fare qualcosa.
Un atto, un semplice gesto, rende questa protesta e questa ondata di solidarietà facile da condividere e facile da partecipare. Il taglio dei capelli, simbolico ed evocativo, Masha infatti è morta in seguito all’arresto per aver lasciato intravedere una ciocca di capelli dal hijab, obbligatorio per legge in Iran.
Da ogni social e da ogni sensibilità si moltiplicano i video di donne di spettacolo, politici e gente comune che al grido di “Donna, Vita e Libertà” si tagliano una ciocca di capelli. Le Iene lanciano un trend: “Tagliati una ciocca e inviala all’ambasciata iraniana come forma di protesta” senza dimenticarti di condividere il tutto con l’hashtag che citi Le Iene, ça va sans dire.
Nei giorni, come spesso accade in questo paese di opinionisti a tutti i costi, il focus si sposta. Le donne iraniane quasi scompaiono e il dibattito diventa: ha senso tagliarsi i capelli in Italia per sostenere le proteste in Iran? E’ una ricerca spasmodica di like, infilarsi in un flusso per posizionarsi dalla parte giusta? O davvero è un gesto simbolico che aiuta? Ancora, ha senso che per manifestare solidarietà ad un popolo mutilato nei diritti sia necessario mutilare ancora una volta un corpo femminile, seppur simbolicamente?
Una serie di argomentazioni da salotto, queste sì del tutto inutili alla causa. Si arriva a commentare la quantità di capello tagliato: se è una ciocca troppo piccola non vale, se è abbastanza grande da rovinarti la piega allora forse sei sincera.
La realtà è che l’attivismo, quello vero, non è una cosa per tutti, ed è assolutamente giusto così. Non tutti sono informati per filo e per segno sulla rivoluzione khomeinista, sulla fine della monarchia e dei diritti civili in Iran. Ma tutti, davvero tutti, possono capire un gesto facile come quello di tagliarsi i capelli. Possono riproporlo e sentirsi parte di una protesta.
Qualche giorno fa è diventato virale il video di Taraneh Ahmadi, diciannovenne iraniana trapiantata in Italia ormai da 3 anni. Bellissima, orecchino al naso e due lunghissime trecce nere. Racconta di quando lei stessa è stata arrestata nel suo paese per aver indossato male il velo, obbligatorio da quando le bambine compiono 9 anni, e tra le lacrime si taglia via le trecce.
Tutti i siti e i social rimbalzano il suo video, viene raggiunta da centinaia di richieste di contatti di giornali che la vogliono intervistare. Lei, probabilmente contenta del risultato ottenuto, ne approfitta per caricare un secondo video, questa volta lungo e articolato, in cui racconta cosa stia succedendo nel suo paese. Ma l’effetto non è quello sperato, se le sue lacrime sono state viste 70mila volte, il video con la spiegazione non va oltre le 500 views.
Eppure lei denuncia il dramma di un paese con parole forti. Racconta di come una donna in Italia se subisce una molestia possa andare dalla polizia per denunciare ed essere ascoltata (anche se qui si potrebbe aprire un capitolo, del resto noi nel Global Gender Gap Report 2022 siamo proprio sotto lo Zambia) mentre in Iran, se lo fai sei tu ad essere arrestata per come sei vestita e rischi anche di essere poi stuprata in carcere. Racconta degli studenti rinchiusi all’università, di come la polizia spari contro le case e le finestre. Racconta dell’impossibilità di difendere i propri diritti più basilari. E dice basta ad un governo “criminale, dittatoriale, oppressivo, sporco, ladro, corrotto, maligno e viscido”.
Taraneh Ahmadi sa che probabilmente per il suo video verrà schedata in Iran, che non potrà mai più tornare nel suo paese senza conseguenze. Ma, dice, “Non abbiamo più niente da perdere”.
E’ facile immaginare che la ragazza sperasse che il suo appello 'Ora è il momento di fare qualcosa, siamo tutti uguali, fatti di carne ossa e sangue, e non abbiamo scelto noi il paese in cui nascere. Aiutaci, abbiamo bisogno del tuo aiuto” godesse della stessa popolarità del video del taglio dei capelli. Che non solo un gesto simbolico, ma la storia di un dolore, potesse arrivare a più persone possibile.
In un momento come questo, dove l’Iran ha chiuso l’accesso a internet, divulgare messaggi fuori dai confini è indispensabile, come indispensabile è mantenere alto l’interesse dell’opinione pubblica.
Ma allora perché il video non ha funzionato? Perché non siamo tutti attivisti. Anzi bisogna essere brutali: perché non tutti sono interessati ai drammi del mondo e al loro approfondimento. Un gesto simbolico è la sintesi di un problema e può far sentire chiunque, magari in maniera illusoria, parte di una protesta e di un’azione collettiva. Tagliarsi i capelli è l’equivalente di mettere la skin rainbow alla propria immagine del profilo durante il Pride Month, senza sapere cosa sia successo a Stonewall.
Se ci si concentrasse meno sulle chiacchiere da salotto avremmo potuto tutti tagliarci i capelli raccontando nel mentre il dramma iraniano. Avremmo potuto unire l’emozione - che sui social è l’unico motore - ad un momento di insegnamento e divulgazione invece di concentrarci tanto sulle profonde intenzioni dei singoli. E questo momento sarebbe stato ricordato come quella volta in cui tutto il mondo si è tagliato i capelli in segno di protesta.
Dovremmo smetterla di giudicarci a vicenda per non essere mai abbastanza genuini o abbastanza coinvolti. Siamo esseri umani. Che ci piaccia o no siamo regolati per provare empatia, o più generalmente coinvolgimento, in base alla prossimità. Un omicidio nel nostro palazzo ci sconvolge, nel nostro quartiere ci spaventa, nella nostra città ci incuriosisce, nel nostro paese inizia ad interessarci solo se ha le caratteristiche giornalistiche adatte. Più ci allontaniamo dal nostro centro e più le cose diventano sbiadite, sempre meno affar nostro. E’ successo anche con la guerra in Ucraina, una guerra dietro l’angolo, sulla quale si discute e ci si confronta e scontra sui social come mai prima d’ora. Forse è una forma di egoismo emotivo, forse solo una questione di sopravvivenza.
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