Tutti piangono a Sanremo: concediamoci il lusso di non trattenere più le lacrime. Il caso Cristicchi fa discutere

L’interpretazione della canzone “Quando sarai piccola” da parte del suo autore Simone Cristicchi ha commosso il pubblico dell’Ariston e quello a casa

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di Maria Beatrice Alonzi

C’è una cosa che l’umanità ha imparato a fare meglio di qualsiasi altra: trattenere. Tratteniamo le lacrime, tratteniamo le parole, tratteniamo i figli, quando si vogliono allontanare per crescere, tratteniamo un amore perché è tutto ciò che ci resta. Tratteniamo il fiato davanti alla vita che cambia e alla morte che arriva. Tratteniamo per paura di sentire, per la vergogna di essere fragili, per l’illusione che, se non diciamo, se non piangiamo, se non soffriamo, allora forse non sta accadendo davvero.

Una madre che diventa bambina

Ma nelle fragilità dei nostri pensieri, i muri vengono giù col vento. Questa prima sera del Festival di Sanremo 2025, un festival compito, senza sbavature, dove tutto è così serio da farci scoppiare a ridere per una cosa minuta come la parola inglese “featuring” pronunciata da Gerry Scotti o i cognomi degli autori delle canzoni che ci ricordano gli autori dei testi scolastici, letti sempre in coppia, una voce si alza dal palco di Sanremo e canta di una madre che diventa bambina, di un figlio che diventa padre. Canta del tempo che prende e restituisce, della memoria che sfugge e dell’amore che rimane.

Quel dolore che è anche nostro

E allora, per una volta, lasciamo andare. Mentre scrivo, sono già oltre un migliaio i video che rimbalzano da un social network all’altro, dentro i quali ci siamo noi, a casa, da soli la maggior parte delle volte (che credevamo ormai che il Festival di Sanremo fosse quello di Amadeus, e ci eravamo scordati di tutti i settanta precedenti), che ci riprendiamo in volto, contiamo le lacrime e digitiamo una sola scritta: “la canzone di Cristicchi”. Piangiamo, e non perché quella storia sia la nostra, ma perché quella storia è nostra. È il nostro dolore, quello che teniamo nascosto dentro le giornate, nelle distrazioni, tra le pieghe del terrore di affrontare l’unica verità che ci accomuna tutti: non sappiamo come amare, lo facciamo troppo e male, non riusciamo a farlo tornare, e questa impossibilità di portare noi musica nel silenzio di qualcuno, ci fa soffrire.

Il controllo come religione

Una canzone, un varco. Un’autorizzazione a sentire – una volta tanto – a lasciarci attraversare. È bello questo dolore, un dolore amabile, da stringere, da tenere un po’ in tasca, tra le mani, per lasciarci curare da qualcuno che vuole, per noi e solo per noi, ’preparare da mangiare per cena’ anche se ‘sa fare il caffè a malapena’. Pieno ma sano, questo sfrigolio al petto: per noi che non siamo più capaci di stare nel dolore senza scappare. Abbiamo fatto del controllo una religione, del distacco una difesa, del cinismo un’armatura.

La nostalgia di ciò che non si è avuto

Ci ripetiamo che dobbiamo essere forti, che piangere è inutile, che tanto la vita è così. Ce lo hanno detto così tante volte che ci abbiamo creduto. Dentro di noi, in uno spazio sottile, però, le voci degli altri, di tutti gli altri, si quietano e ci andiamo a prendere la capacità di soffrire, perché, per dio, una volta all’anno vale anche la pena lasciarci vivere e in quei pochi minuti di canzone dentro si è mosso qualcosa con così tanta forza che ha fatto un sonoro crack. Le mani si alzano a coprire il viso, il respiro si spezza, gli occhi si fanno lucidi. Sentiamo il peso della perdita, la nostalgia più assurda – quella per ciò che non abbiamo avuto – la dolcezza infinita di chi avremmo voluto ci amasse senza condizioni.

Madre e figlio

Non sai se la storia di Cristicchi qualcuno l’abbia vissuta davvero ma, per te che la vorresti una madre da piangere, ti accontenti di averne una immaginaria ancora per qualche secondo: suo figlio ti parla dal palco del Festival della canzone italiana.

L'emozione che consola

E mentre il cuore si stringe, accade qualcosa di straordinario: ti concedi. Concedi te, il tuo cuore: la tristezza è l’emozione che serve a consolare, che serve a fermare il tempo, che stacca la spina, che molla la presa, che ti dice “aspetta” che ti lascia calmare e scaldare dalle lacrime che vengono giù piano. Perché la sofferenza non ti spegne, è il rifiuto di sentirla che lo fa. E tu, stasera, hai acceso una lampadina.

Le lacrime di uno e di tutti

E allora piangi. Piangi per il lutto del tuo dolore, per averlo messo a dormire una sera di tanti anni fa – mentre eri ancora una persona piccinia – aver chiuso il cassetto, l’armadio e persino la porta della stanza e non aver mai più guardato indietro. Per chi hai perso e per chi hai paura di perdere, per il tempo che scorre, per i ricordi che svaniscono, per la paura di dimenticare e di essere dimenticati.

Piangi, perché, alla fine, è l’unico modo per dire al mondo che hai tutto l’amore del mondo da dare. E tutte le lacrime che porti con te possono esserti molto d’aiuto per testimoniare quanto il tuo dolore sia sempre valso la pena.
A domani.