Sanremo e l'ossessione del ricordo: i fantasmi del passato e il brutale specchio del presente
La liturgia della memoria, si sa, funziona sempre. A Sanremo 2025 si commemora, piange, saluta chi non c'è più. Ma sembra un appiglio per non farsi travolgere da un futuro che fa paura

C’è un tempo in cui la musica serve per costruire il futuro. E poi c’è un tempo in cui la musica serve per ricordare. La quarta serata del Festival ha scelto il secondo. È una scelta (involontaria?) che si ripete. Ogni sera – con una costanza che sfiora sempre di più l’ossessione – urgenza e memoria sono gli unici strumenti rimasti per ancorare un Festival che non vuole lasciarsi travolgere dal presente, anzi, vuole controllarlo al millesimo di secondo e Carlo Conti, custode di questo rituale, rende omaggio a puntualità e scomparsi, con maniacale precisione. Nella serata dei duetti, ogni canzone si piega al ricordo di qualcuno che è stato, ogni artista viene avvolto nella necessità di dedicare un brano a un’assenza.
È il Festival che prega il suo passato: lo avevamo già visto durante la terza serata col bambino-prodigio che sa evocarti a memoria tutti i fantasmi dei Baudo passati, e che – anche durante la kermesse delle cover – cerca il conforto che il presente non sa dare. Un rosario di assenze, un celebrare i vent’anni di questo, e commemorare i trenta di quello e confermare i sessanta dell’altro, così tanto e così spesso che ricordo con più facilità gli appuntamenti cinematografici e televisivi dati sera dopo sera, per il prodotto audiovisivo in promozione di turno, che non i nomi di tutti gli artisti in gara, talmente sono stata (in questi ultimi giorni) ammaestrata e addestrata da Carlo Pavlov Conti a ingurgitare date.
Perché la liturgia della memoria, si sa, funziona sempre: ci rende persone migliori senza chiederci troppo in cambio. Non si sfugge, non si devia, non si scherza (troppo) – nonostante i più straordinari sforzi di una vivissima Geppi Cucciari. A Sanremo 2025 si commemora, piange, saluta e – come sto facendo io – si elenca. E lo si fa con quella compostezza che sa di conservazione, di vecchie fotografie in bianco e nero appese in un salotto che odora di chiuso, dove non si cambia mai la disposizione dei mobili. E allora anche ogni cover ha avuto il sapore di un’evocazione: come se ciascun cantante portasse sul palco un’ombra, un fantasma da tenere vicino, una voce da resuscitare per qualche minuto.
Pino Daniele c’è stato due volte, forse perché a Napoli non si può dire addio per davvero. Battiato è tornato con Cristicchi, Califano con Willie Peyote, Dalla con Brunori, che insieme a Tiromancino e Dimartino (che ho scoperto – al contrario degli Unni e dei Visigoti – può viaggiare anche solo, senza Colapesce) canta L'anno che verrà e dedica tutto a Paolo Benvegnù. E cos'è se non la perfetta sovrapposizione tra quello che si è perso e quello che non tornerà? "Sarà tre volte Natale e festa tutto il giorno", ma solo per chi può ancora contare le stagioni. Per esempio Bresh e Cristiano De André che infatti ripetono proprio tre volte l'esibizione per problemi tecnici, ma nella retorica del Festival sembra quasi un segno, una forzatura del destino per far risuonare ancora una volta Creuza de mà e (come in certi riti), per saturazione semantica farci allucinare Faber sul palco.
Sanremo non è mai stato così attaccato ai suoi fantasmi. Forse è questo il suo modo di tenere tutto insieme, di difendersi da un tempo che avanza senza chiedere permesso. La musica resta, le parole restano, i nomi vengono pronunciati ancora e ancora, per non essere dimenticati. Forse è per questo che il momento più moderno e attuale della serata è stato inserito tardi, anzi, tardissimo, addirittura in ritardo: Paolo Kessisoglu con sua figlia Lunita salgono sul palco. Nessun omaggio, nessun ricordo, nessuna nostalgia del passato, il brutale specchio di un presente dove ci raccontano l’emergenza fondamentale della salute mentale nei più giovani; l’unico frammento di presente e di futuro in un Sanremo che non ha parlato di nulla che non fosse già stato. Il solo momento in cui la musica non ha fatto da reliquia, ma da strumento.
Eppure, la verità è che la memoria non è sbagliata. Il problema è quando diventa un’àncora invece che una spinta. Quando si trasforma nel solo appiglio rimasto per non farsi travolgere da un futuro che fa paura. Questo Festival sembra aver scelto di non guardare avanti, di rifugiarsi nei grandi che hanno lasciato un vuoto sicuro, in ciò che è bellezza a volte solo perché non può più essere rovinata dal tempo.
E noi, che ascoltiamo, non possiamo che sentirci parte di questo rito. Perché anche il Festival lo sa: la morte non è solo assenza, è il modo più potente di restare. Ma il presente è qui, anche se non lo vogliamo vedere. In Mahmood che, libero di offrirci un suo medley, canta e balla alternando coreografie ed esibizioni vocali, come il più scafato degli artisti internazionali; il presente dovrebbe essere in coloro che non hanno ancora fatto la storia della musica, ma che in questa memoria liturgica rischiano di essere solo figuranti di un racconto che li chiama in causa solo per il sangue giovane nelle vene. Ogni canzone una finestra sul passato, ogni nota un monumento. E quando Giorgia e Annalisa arrivano con Skyfall, il cerchio si chiude: "This is the end", questo è il finale. E, infatti, stasera, vincono loro. Secondo arriva Topo Gigio, il più minuto tra i giganti della nostalgia, terzo Fedez, che canta di come ha concluso più di una storia d’amore, iniziando e finendo con i suoi tentativi: di mettere una fine anche a sé stesso. Se leggendomi tu avessi avuto dei dubbi su quanto ti stessi raccontando, credo la classifica li abbia dissolti.
Alla fine, anche stavolta, ci resta una domanda “trattieni il respiro e conta fino a dieci”: sappiamo bene chi abbiamo ricordato, ma chi ci ricorderà? A domani.