Alla fine vince la canzone più sanremese di tutte ma solo nel titolo: cosa ci insegna la nostalgia di Olly

Fino all’ultimo abbiamo aspettato l’ovvio: un monumento alla voce di Giorgia, la delicatezza delle parole di Cristicchi, invece Olly vince raccontando la nostalgia senza velluti

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di Maria Beatrice Alonzi

E così, in questo Sanremo che sembrava scolpito nella pietra, dove ogni parola era stata scelta per restare, qualcosa si è mosso. Qualcosa ha sgomitato tra gli spartiti perfetti della grande canzone italiana e si è fatto spazio.

Forse è il destino di chi è nato troppo tardi per avere un posto nei racconti che contano quello che combatte la Gen Z tutti i giorni: cercare di spiegare che mondo impoverito abbiano i ventenni tra le mani oggi e gridare perché si provi a trattarlo un po’ meglio, mentre chiunque non gli offre né orecchio né credito. Forse è il destino di chi non ha un’epoca alla quale appartenere, ma solo un presente che gli si sfalda davanti, quello di chi – in un luogo sospeso nel tempo – porta una canzone che vince raccontando la nostalgia senza velluti e il rimpianto senza fumo nei teatri chiusi. I piatti in più a tavola, i gesti minuscoli di chi è stato lasciato indietro ma ancora apparecchia per due. E, forse, era davvero destino che proprio tutta l’Italia lo ascoltasse.

È paradossale che la vittoria sia arrivata con il pezzo più sanremese di tutti ma solo nel titolo: “Balorda nostalgia”; appropriato come slogan per l’intera kermesse. La celebrazione di ciò che è stato, il richiamo costante alle voci che abbiamo perso. Olly, però, vince senza cantare il passato come un luogo bensì per ciò che è davvero: un ricordo, che si mescola ai giorni che vengono, una presenza invisibile che si fa sentire nei momenti meschini. Nel telecomando ancora stretto in mano, nel cucinare con la radio accesa, nel chiedersi se sia davvero finita o se invece esista ancora una possibilità.

Fino all’ultimo abbiamo aspettato l’ovvio: un monumento alla voce di Giorgia, la delicatezza delle parole di Cristicchi (che portano infatti a casa un premio ciascuno) e la rimonta sociale di Fedez (arrivato quarto): un Festival cullatosi nel cercare di insegnarci a piangere con precisione e bene, e fingere di saper amare ancora meglio. Ogni gesto misurato, ogni nota una dedica agli scomparsi (Conti schiaffa in zona Cesarini persino un: «E so infatti che vuoi dedicarlo a tua nonna che non c’è più» a una basita Maria Sole Pollio venuta a prendersi il suo meritato minuto di applausi, in seguito a una brillante conduzione del Primafestival). Ma, all’improvviso, il margine: la nostalgia di Olly che non è un altare, ma uno schiocco che resta impigliato tra i polpastrelli, di chi tiene il ritmo (“delle cose”) anche quando fa male.

Canta l’assenza, ma con un respiro di vita tutto suo. Non c’è monumentalità nella voce, nessuna eco da colonna sonora per un amarcord dorato. Solo la vita che continua, storta, sbilenca, con la erre che non suona mai giusta, eppure è proprio con quella che accarezza.

Nella serata dove Edoardo Bove (il centrocampista della Fiorentina classe 2002, che poco più di un mese fa viene salvato da un infarto grazie al tempismo dei soccorsi) racconta a oltre dieci milioni di persone che dopo un evento devastante che ti svuota ci vuole la psicoterapia, e non solo il confronto della famiglia e degli amici, forse Olly doveva vincere per forza: contro ogni pronostico sulla canzone, ma anche sulla voce, e, soprattutto, sul suo valore in questo Festival.

Ma sai qual è la verità? Non è nemmeno la sua vittoria il punto, bensì lo spiazzamento. Perché alla fine di tutto, il Festival di Sanremo più austero e prevedibile degli ultimi dieci anni, ha fatto la cosa meno attesa: ha lasciato che fosse il presente a vincere.

In un copione che sembrava scritto a memoria, qualcuno ha dimenticato di chiedere il permesso al passato. “E tu chiamala se vuoi la ne”, io lo chiamo Olly.

Al prossimo anno.