Mobbing, suicidi e torture: Riondino svela la scomoda verità sull'Ilva dove lavoravano suo fratello e suo padre
Elio Germano e Vanessa Scalera come interpreti e la magia di Diodato per "Palazzina Paf". Michele Riondino: "Il mio film politico, ideologico e di parte: sono pronto al contraddittorio"
Che Michele Riondino sia un attore da preservare e valorizzare sempre è un dato di fatto, opportuno, dovuto, visto il carisma, la qualità, lo sguardo da “allenatore in campo” che sembra dare ogni volta quando si avvicina a un personaggio, senza mai dare l’impressione (a chi lo osserva) riguardo alle difficoltà di costruzione. Basterebbe rivedersi pellicole come Acciaio, Il giovane favoloso, Noi credevamo, Il passo è una terra straniera, per rendersene ulteriormente conto.
Ma che sia anche un regista sensibile e coraggioso, lo scopriamo per fortuna ora, ma in fondo è una conferma. Accade grazie a Palazzina Laf (dal 30 novembre in sala con Bim), la sua opera prima dietro la macchina da presa e presentata alla Festa del Cinema di Roma, dove può contare su un cast in stato di grazia, da Elio Germano a Vanessa Scalera, e di una canzone trainante splendida, La mia terra, scritta dall’amico storico e collaboratore, Diodato.
Non è un semplice debutto artistico, ma una storia che parte da lontano e lo tocca profondamente, una seconda pelle bruciata e arrabbiata, al punto da averne parlato per anni in maniera da attivista e per quale causa si è impegnato per andare in cerca della verità. Parliamo del complesso industriale dell’Ilva di Taranto (sua città natale, dove da direttore artistico ha lanciato il concerto dell’Uno Maggio Taranto, insieme a Diodato e Roy Paci), degli operai che lì hanno lavorato e della famigerata appunto Palazzina Laf, da qui il titolo, ambientato nel 1997. Un luogo dove i vertici aziendali spedivano per punizione alcuni di loro, obbligandoli a restarci, privandoli delle loro consuete mansioni. Un apparente paradiso, che in realtà nascondeva una strategia sordida, servita per distruggere psicologicamente i lavoratori ritenuti più scomodi, spingendoli alle dimissioni o al demansionamento.
Una classe operaia che (non) andò in Paradiso, come dire, ma scoprì l’inferno, e che lì perse la propria dignità. Da qui parte il suo racconto, nel quale è anche protagonista interpretando Caterino, uno dei tanti operai chiamati a fare il proprio compito ogni giorno, che d’un tratto viene inviato (come infiltrato) a spiare chi, e cosa succedeva tra i colleghi, nelle assemblee sindacali o partecipando agli scioperi, alla ricerca di motivazione per denunciarne i comportamenti. Un passaggio, prima di essere collocato anch’esso alla Laf, dove scoprirà realmente cosa accade. Un lavoro complesso e di ricerca quello che Michele Riondino porta alla luce, e per cui, lo sottolinea più volte è pronto al contraddittorio, senza paura di mostrare prove, testimonianze e documenti. Sì, perché in fondo questo progetto, ha un valore diverso rispetto ai lavori portati in scena precedentemente.
Mobbing, suicidi e torture
Lo tocca sul piano personale, il padre e il fratello lavoravano infatti all’Ilva, e tutto quello che negli anni si è verificato, è oltremodo una causa sulla quale non girare la testa. Anzi, ha fatto il contrario, si è battuto ed esposto, e i fatti ora, guardando il film, gli danno ragione. “Questo è un film politico, ideologico, e anche di parte”, ci racconta Riondino, “del quale si può dire tutto. Ed io non vedo l’ora del contraddittorio, di parlare e confrontarmi, ma qui ho cercato di raccontare questa storia utilizzando il mio mezzo, la mia drammatica, l’ho voluto fare con verità oggettive, raccogliendo testimonianze e carte processuali, e che fanno parte delle sentenze. Con la Palazzina Laf per la prima volta si è usato il termine mobbing (e bossing), non esisteva, e si è parlato violenza privata, di suicidi, indiretti e diretti, di tortura, di monito per altri lavoratori), era una strategia della tensione, di una scatenata arrampicata sociale. Oggi importa farci delle domande all’interno delle aziende prima che entrino in crisi”. Il cinema serve allora a fare luce più che mai sull’attualità. “La politica”, dice, “non vuole capire, mentre noi (artisti, attori, registi, ndr) siamo delegati alla parte ignorante. Non è il film, o il cinema a dover dire o trovare una soluzione, io però da attivista c’ho messo anni per dire la mia opinione, ed essere il più preciso possibile.