"Quando ho cantato con Mina e mi cacciavano dagli hotel con Loredana Berté". Rossana Casale e il dolore più grande: "Così mi sono salvata"
Una voce magica, i tour con Mia Martini e le collaborazioni con i più grandi, il successo suo malgrado. Poi la morte improvvisa del compagno e la vita da reinventare con un bimbo piccolo. E, su tutto, quella passione per il jazz
Quella volta che ha cantato con Mina in una chiesa sconsacrata di Milano e si è sentita chiedere “che nota facciamo?”. Il tour con Mia Martini che sgridava lei e Aida Cooper, troppo giovani e ribelli. Poi l’avventura con Loredana Berté dove “eravamo a briglia sciolta e ci siamo scatenate. Non so più quanti hotel ci hanno mandato via perché per noi il concerto non finiva mai e la notte continuavamo a cantare e fare scherzi”. Rossana Casale è un unico nella musica italiana perché in un ambiente dove tutti si affannano a farsi notare, lei ha sempre giocato di rimessa, accettando di entrare in campo solo se qualcuno si ostinava a passarle la palla. È diventata cantante suo malgrado perché lei faceva la corista e le stava bene così: la ribalta non è mai stata un suo obiettivo. Anche il successo è arrivato suo malgrado, prima con “Didin” un pezzo del suo compagno di allora Alberto Fortis e poi con “Brividi” che nel Sanremo del 1986 la impose immediatamente nella sua raffinata diversità. In nome del successo, però, non ha mai rinnegato sé stessa e soprattutto quella passionaccia per il jazz, che il padre americano le faceva ascoltare fin da piccolissima e che inevitabilmente l’ha indirizzata verso la nicchia benedetta del firmamento di Chet Baker e Billie Holliday. Ma non c’è traccia di rimpianto in quei suoi occhi blu che da molti anni si incaricano di scovare talenti o educare voci nei conservatori ma anche nei talent tv, da “Operazione Trionfo” a “X-Factor”.
Il jazz è la mia voce
Lei lo spiega con dolcezza facendo un esempio: “È come quando vai a una cena. Ci sono delle volte che ti ritrovi in una serata magica, con persone che parlano la tua lingua, con cui nascono quei discorsi belli, profondi e che ti sembra di conoscere da sempre. Poi magari ti ritrovi in un’altra situazione completamente diversa, in una di quelle sere che quando torni a casa ti chiedi “ma che sono uscita a fare?”. Ecco, io ho sempre pensato che dovevo rivolgermi a quelli seduti nella prima tavola. Ci vuole molta fatica a cercare di piacere a tutti e rispetto molto chi lo fa. Ma ho da sempre saputo di essere diversa, il jazz è il mio modo di sentire, di esprimermi, è il mio megafono senza il quale non riuscirei a far uscire la voce. E così mi tengo i club, i locali, l’abbraccio del pubblico piccolo ma realmente vicino al cuore. E continuo a sedermi nella prima tavolata”.
Quell'abbraccio in cui abbiamo unito i nostri dolori
Rossana è ad Aversa per il premio Bianca d’Aponte, dedicato alle giovani cantautrici, una manifestazione giunta alla ventesima edizione alla quale è legata a doppio filo fin da quando è stata la madrina diciotto anni fa. Tutto è nato con un abbraccio e un pianto dirotto tra lei e Gaetano D’Aponte, che è il padre della ragazza morta giovanissima a cui il premio è intitolato. “Il mio compagno, Maurizio Fiorini, era morto improvvisamente in un incidente stradale due anni prima e io mi ero ritrovata da sola con un bambino piccolo da crescere e il lavoro da portare avanti faticosamente, perché la vita nomade di un’artista sola non si sposa facilmente con le esigenze di un bimbo. Ero in una situazione psicologica di instabilità e in una situazione esistenziale molto molto difficile. Con Gaetano quel giorno ci siamo abbracciati, uniti da un dolore inconsolabile”. Un dolore che Rossana Casale, anche oggi che sono trascorsi 22 anni da quella scomparsa improvvisa, ha imparato ad accarezzare senza farsi travolgere “in momenti quasi mistici, in cui cielo e terra riescono miracolosamente a baciarsi specchiandosi nel mare”.
Foto Ansa, Facebook e sito www.rossanacasale.it
È appena uscito il tuo nuovo album, dichiaratamente e appassionatamente jazz. Si intitola “Almost Blue” e c’è un inedito che firmi, “Shades of Blue”. Com’è nato?
“È una storia speciale. Da sei anni abito al mare, a Viareggio. E mi sono ritrovata, come sempre faccio, a camminare sulla spiaggia a fine estate. Era tardo pomeriggio e il cielo ha cominciato ad assumere i colori della notte. C’era l’azzurro, il cobalto, il blu scuro, c’era un po’ di turchese in fondo. E io mi sono seduta e immersa in questo fondale perché il cielo si specchiava su questo mare fermo, immobile, una tavola. La linea dell’orizzonte era cancellata. Lì mi sono persa completamente, facendo in modo di allontanarmi dalla vita reale il più possibile e cercando di ritrovare le persone che ho amato e che non ci sono più, a cominciare dal mio compagno. È stata un’emozione fortissima. Sono tornata a casa con la voglia di fermare questo momento e ho scritto di getto un testo che si chiama “Shades of Blue”, sfumature di blu. Poi ho chiamato Luigi Bonafede, che è un pianista jazz eccellente e un grande maestro, e gli ho chiesto di costruirci una musica jazz come una nuvola di emozioni. E così è nato questo brano quasi miracoloso”.
Come si fa a non perdersi davanti a un dolore così grande? Che cosa ti ha salvata?
“Mio figlio principalmente. Avevo la responsabilità di proteggere il suo di dolore e di andare avanti. Il mio lavoro doveva necessariamente cambiare perché dovevo stargli accanto. Non ci sono riuscita tantissimo, anche perché il quel periodo stavo facendo un musical, ma ho fatto del mio meglio. Poi ho lasciato il teatro e mi sono impegnata molto nella musica per mandare avanti il lavoro e la nostra famiglia. Oggi ogni tanto gli dico: “siamo stati proprio bravi”. E poi la musica e i miei amici. Nella mia vita ho sempre messo davanti le persone. Alla fine di un percorso di musica e carriera, quando inevitabilmente devi lasciare il passo, ho cercato di ritrovare i miei amici di sempre e di stare con loro la sera, con il mio pianoforte a casa e le cene da trascorrere insieme. E così sarà”.
“Almost Blue” è un album con tanti standard jazz che hanno in comune il colore blu nel titolo. Ti senti blu? O quasi blu, come dice “Almost blue”?
“Nel disco c’è un brano che mi dipinge alla perfezione. Si intitola “Born to be Blue”, “nata per essere blu”. Ed è proprio così. Sono blu nel senso di malinconica, con lo sguardo rivolto verso il mio mondo interiore, a volte spirituale, quasi mistica. Mi capita anche di scivolare nel blu più profondo, quasi nero, in quel luogo dove rischi di non vedere e farti del male. Ma anche il blu che diventa turchese, celeste, il blu della creatività, della speranza. Il “quasi” era un gioco che ricorda l’album di Joni Mitchell, alla quale ho dedicato un lavoro alcuni anni fa. Io non sarò mai come lei e il suo “Blue”, per cui ‘quasi blu’ ci stava bene. È un gioco”.
Da corista hai cantato con tanti grandi artisti, da Roberto Vecchioni ad Adriano Celentano, da Riccardo Cocciante ad Al Bano e Romina Power. Ma ho letto che una volta hai incrociato la voce addirittura con Mina. Com’è andata?
“Eravamo in una chiesa sconsacrata di Milano dove lei stava registrando il suo nuovo disco. Io ero con alcuni altri coristi, giovanissima, lei era già un mito. Quando è arrivata ci chiese: “posso cantare con voi?”. Noi la guardammo esterrefatti. “Che nota devo fare?”. “Quella che vuoi, falle tutte…”, pensavamo sorpresi da così tanta disponibilità. È stata un’esperienza molto bella. Lei è stata dolce e umile ed è venuto fuori un coro magnifico. Da anni sogno un duetto con lei sulle note di “Brividi”: so che le piace molto perché l’ha scelta come sigla di un suo programma radiofonico. Chissà”.
Com’è stato lavorare con Mia Martini, un’altra leggenda della nostra musica?
“Io ero davvero una ragazzina e lei mi guardava come se fossi un essere strano che aveva questa dote della voce e dell’orecchio musicale. Partimmo in tour, l’altra corista era Aida Cooper. Mimì era una grande poetessa dell’anima e sapeva emozionarti in una maniera pazzesca sul palco. A volte si girava a guardarci come a dire “tocca a voi” e noi eravamo così assorbite nell’ascoltarla che magari ci dimenticavano di entrare. Ma era anche una donna molto severa e tosta. E un po’ ci sgridava e ci richiamava all’ordine. Dopo di lei io e Aida siamo andate a lavorare con Loredana e lì si è scatenato l’inferno".
Cosa combinavate?
"Finalmente avevamo le briglie sciolte: io e Aida eravamo due vere pesti. Solo che avevamo anche l’aggiunta di Loredana che era un’altra peste. Ci siamo divertite tantissimo, abbiamo riso tanto e ci siamo fatte cacciare da un sacco di alberghi. Ci facevamo gli scherzi di notte con i musicisti. Il concerto non finiva mai, si andava avanti e si suonava anche nelle camere degli alberghi. A Loredana devo dire un grazie perché se io ho cominciato a cantare da solista è stato anche perché lei parlò di me a un discografico: “Anziché cercare tanto in giro, guardate che abbiamo delle coriste bravissime. Io ne ho una cosa si chiama Rossana Casale e dovete ascoltarla perché ha una voce straordinaria”.
Sei nata a New York e hai la doppia cittadinanza. Che legame hai con gli Usa? Voti?
“Sì, ho già votato nei giorni scorsi, ovviamente per Kamala. Non avevo mai votato ma queste elezioni sono importanti. E ha votato pure mio figlio perché anche lui ha la doppia cittadinanza. Il mio legame con gli Stati Uniti passa per la musica che mi faceva ascoltare mio padre, il jazz ovviamente. Mentre mia mamma, veneziana, che come me amava il mare, mi ha fatto conoscere i cantautori, Paoli, Tenco, De André. E questi due ascolti nell’orecchio sono diventati la mia musica, canzone d’autore più jazz”.
Tu che hai lavorato in diversi talent televisivi come vocal coach e che continui al Conservatorio, hai mantenuto un rapporto stretto con tanti giovani artisti. Oggi molti tra loro, come Angelina Mango, ma anche Kekko Silvestre dei Modà e Sangiovanni, sono in difficoltà, sotto stress e decidono di fermarsi. Cosa ne pensi? Il mondo della musica è un tritacarne?
“Parlo un po’ da mamma ma anche da insegnante. I ragazzi sono meravigliosi ma sono anche molto fragili. E si ritrovano in un mondo che ha fretta, che corre e che ti deve spremere il più possibile prima che arrivi qualcun altro da spremere. Angelina che io stimo moltissimo penso che faccia bene a fermarsi un attimo. È solo una ragazza che si ritrova con un successo enorme che le è caduto sulla testa e con un mondo discografico che ti chiede di fare, fare e fare. Magari ha pochissime possibilità di stare due settimane di fila a casa sua, fare una passeggiata e godersi gli amici. E la voce ne risente. È il nostro specchio che si accorda con il nostro cambiamento, con ciò che diventiamo mano a mano che viviamo. Siamo esseri in evoluzione, come diceva Gaber, ma se non ci diamo il tempo di accordare il nostro intimo con ciò che diventiamo, rischiamo di essere dissonanti con noi stessi. Il fatto è che noi, quelli della mia generazione, venivamo dalla gavetta, dai locali, dalle cantine. Oggi non c’è più la gavetta, purtroppo. Ai miei allievi di Conservatorio dico sempre di trovarsi un posto in cui cantare. Il sacrificio è tanto ma è necessario. È l’unica cosa che ti struttura e che ti permette di reggere un mestiere difficile. I no, le delusioni, i posti che non ti pagano, i discografici che prima ti esaltano e poi non ti rispondono al telefono. Quella della musica è una vita tosta e solo la gavetta ti dà la forza di sopportare i momenti belli e brutti. Anch’io per un periodo ho smesso”.
Cos’era successo?
“Avevo ottenuto un contratto fenomenale da una casa discografica e avevo fatto un disco, “Lo stato naturale delle cose”, che però fu un insuccesso. Mi offrirono un rinnovo al ribasso. Io con grande orgoglio risposi di no e mi fermai. Andai a lavorare in un’agenzia pubblicitaria. Ma dopo un anno non ho resistito e sono tornata alla musica, alla vita”.