"Non sono un intellettuale ma vi spiego io perché il cinema è in crisi". L'autocritica che non ti aspetti
L'attore si racconta a partire dal successo dell'Ultimo bacio e dice la sua sui motivi della crisi del cinema italiano. Il sovranismo nel mondo dei film? Non è solo una provocazione
Pierfrancesco Favino. Credits Daniele Barraco
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Oggettivamente, il contesto aiuta il testo. Dietro lo schermo (che è anche il palco) ci sono Camogli, Punta Chiappa, il golfo Paradiso, che non si chiama così a caso, un mare che è una tavola, un tramonto straordinario, le lampare, le navi da crociera e i traghetti pavesati con le luci a festa. Il pubblico sta seduto sulle sedie a sdraio – “come la plage a Cannes” sorride Giorgio Viaro, direttore di Genova Realoaded, il festival giunto alla quarta edizione e che quest’anno ha avuto ospiti oltre a Favino, anche Alessandro Gassmann e Zerocalcare, proponendo i film più interessanti e poco conosciuti della stagione – e Favino scherza: “Non è nemmeno il caso di dirvi di mettervi comodi…”.
Parla di tutto, in modo torrenziale (“v’attacco ‘na pippa”), Pierfrancesco “Picchio” Favino, con i suoi fans – soprattutto donne – che se lo mangiano con gli occhi, anche perché è figo, simpatico, disponibile, allegro. E quindi l’unico modo di raccontarvelo è a capitoletti, in una sorta di tutto Favino minuto per minuto.
Con un filo conduttore, però, importantissimo. Il rispetto per il pubblico.
Favino e i “film di Favino”
“No, non sono i miei film, sono dei registi che li pensano e li fanno e non è che dico così perché ho paura che non mi chiamino più. E non vanno divisi nemmeno per genere, ma solo fra film belli e brutti. Quindi, personalmente, scelgo i registi, ma la scelta dipende anche dal momento che sto vivendo. Con un’unica priorità: fare film perché il pubblico li veda e non perché piacciono a noi del mondo del cinema”.
Favino l’autoreferenzialità del mondo del cinema e il film che gli sarebbe piaciuto fare
Il seguito del discorso è la diretta conseguenza di questo: “Non capisco quando il nostro mondo guarda solo a se stesso e al proprio ombelico, anziché pensare al pubblico. Io sono una persona assolutamente basica, non un intellettuale. Poi, certo, conquistandosi credibilità e popolarità, è stato possibile girare film di registi importanti e impegnati, ma pensare che ciò che piace a noi è anche ciò che piace al pubblico è un errore imperdonabile. Un film che mi sarebbe piaciuto fare? “L’attimo fuggente””.
Favino, l’affitto e Sanremo
“Quindici anni fa non ero io a scegliere, ma a scegliere per me era l’affitto da pagare, oggi diventato mutuo. Ma la svolta della mia carriera è arrivata con il Festival di Sanremo”. A questo punto dal pubblico di cinefili parte qualche colpo di tosse, che Pierfrancesco stoppa subito: “Sì sì, avete capito bene, Sanremo, non è mica una brutta cosa. E’ ciò che mi ha fatto diventare uno di famiglia per la gente e che mi ha portato a far divertire le persone che in quel momento hanno saputo come mi chiamavo e a dare un nome al mio volto. Insomma, dietro “Il traditore”, “Nostalgia”, “Hammamet”, c’è tanto di Sanremo”.
Favino e il cinema di oggi
Ogni passaggio va diretto allo stesso punto, perché quella di Favino è coerenza totale con le proprie idee di attore a cui il pubblico non fa schifo, anzi. Ed è una forza straordinaria quella del rispetto del proprio pubblico: “Dobbiamo imparare a parlare al pubblico reale che va al cinema due volte l’anno, anzi oggi nemmeno più quelle due. E invece molti del nostro mondo sono ancora fermi agli anni Novanta e a quegli automatismi, per cui bastava promuovere bene i film e la gente andava a vederli a prescindere dal loro valore. Invece oggi c’è una sorta di Dio del cinema e, giustamente, se ne scelgono pochissimi in base al passaparola degli amici. Ecco, io cerco di realizzare film per cui valga la pena di uscire di casa”.
Favino e l’aneddoto sul film italiano più apprezzato degli ultimi quarant’anni
In tutto questo, Favino si spende un aneddoto straordinario. Ogni mattina incontravo alcuni miei amici e colleghi a metà fra il depresso e l’arrabbiato, che venivano tutti dallo stesso set e chiedevo loro cosa avessero: “A Pierfrance’ non poi capì …Stamo a fa ‘sto film dove stamo tutti tutto il giorno attorno a un tavolo e questi personaggi parlano, parlano, parlano e basta…Ma che film sarà?”. Insomma, era “Perfetti sconosciuti”, il maggior successo italiano degli ultimi decenni”.
Favino e il trionfo de “L’ultimo bacio”
“Sì facevo parte di quel cast, anche se la mia era una piccola parte. Loro erano belli, fighi, gli attori più importanti della scena e io mi sentivo un po’ Calimero in quel cast. Però devo dire che già su quel set si respirava un’energia diversa e si capiva che quel regista, Gabriele Muccino, maneggiava la macchina da presa con una destrezza unica. Fra l’altro credo che nemmeno Gabriele in quel momento pensasse che stava realizzando il film di una generazione, rimasto importante anche dopo. Ma, per l’appunto, erano anni in cui i film segnavano le pietre miliari degli anni che venivano associati a un film: penso a “L’ultimo bacio”, ma anche a film stranieri come “Magnolia” o “American Beauty”.
Favino, Muccino e Sollima, “il più punk”
Da qui viene la classifica dei registi con cui ha lavorato di più (c’è spazio anche per un’imitazione perfetta e irresistibile di Marco Bellocchio) con Muccino a quota quattro e Sollima a tre: “Stefano è il regista più punk che abbiamo in Italia, in lui Dio è assente e anche la Provvidenza, è un calvinista del cinema. Siamo amici, abbiamo gusti simili, certo poi ti richiede un dispendio energetico che strizza troupe ed attori”.
Favino e Salvatores, “lo Spielberg italiano”
Pierfrancesco arriva dalla Croazia dove sta girando “una favola intelligente, con la sceneggiatura di Fellini, diretta da Gabriele Salvatores. Si chiama “Napoli-New York” e parla di immigrazione, ma non solo, racconta la nostra storia e vede protagonisti i bambini, ma non in modo ricattatorio. Gabriele, come ha dimostrato in “Io non ho paura” e anche nei due episodi del “Ragazzo invisibile” ha uno straordinario tocco con i minori, se fosse in America sarebbe Spielberg”.
Favino e lo studio prima dei film
Il direttore Viario gli butta lì che lui ha la fama di essere uno che studia tanto prima di andare sul set, con il pendolo più spostato verso l’Actor Studio piuttosto che verso chi sostiene che per fare l’attore basta non inciampare nei comodini sui set: “In Italia spesso si è confuso il neorealismo con la naturalezza e la spontaneità, ma in realtà non credo che siano automaticamente valori per un attore. Così come non lo è il virtuosismo. Io studio per sparire, per lasciare protagonista non Favino ma il mio personaggio”.
Favino e i registi da tre ciak, ma non Moretti
“Ho lavorato in produzioni americane. Ricordo io e Castellitto fermi a Usti, al confine con la Repubblica Ceca per Narnia e un mese per girare un’inquadratura in cui ero fermo, con mille persone sul set, tre turni di catering per otto ore ciascuno e decine di ciak. Qui una produzione ha a disposizione tre ciak, quattro quando è un kolossal, tranne che sei Moretti e ne hai a disposizione di più. Lì invece ne avevamo decine. Ma….”
Favino e la difesa del cinema italiano
“…Ma non lavoro più lì. Io sono fra coloro che votano all’Oscar, ma mentre sarebbe impensabile che un francese sia interpretato da un americano, o un belga, o un greco, o un tedesco, questo non avviene per gli italiani, dove le produzioni internazionali impongono attori di altri Paesi e questo non esiste, visto che anche le produzioni internazionali in Italia godono del tax credit del 40 per cento”.
Favino e il sovranismo
“Ma questo non è un discorso sovranista, non equivocatemi. Come si vede guardandomi non sono un perfetto ariano e probabilmente qualche mia bisavola si è incontrata con qualche Saraceno di passaggio. Ma rispettiamo la nostra storia, fatta di Normanni, di Saraceni, di apertura al mare. Che è la storia di tutti noi…”.