Che faresti se tua figlia fosse vittima di violenza in una relazione tossica? Storia di "Mia" e Sergio, alias Edoardo Leo
Nel film "Mia", Edoardo Leo veste i panni di un padre che scopre come la figlia sia vittima di una relazione tossica ,a anche di volenze fisiche
Alla fine della proiezione al Circuito Cinema Sivori di Genova – il primo cinema della storia in Italia - con il regista, la sceneggiatrice, una critica cinematografica e docente di cinema e una psicoterapeuta, nessuno pare volersene andare.
Passano dieci minuti, poi mezz’ora, poi un’ora e poi ancora e ancora e ciascuno di noi in sala vuole dire qualcosa: intervengono padri, madri, psicologi, un sacerdote, professori e professoresse di scuole di vari ordini e grado, giovani e anziani, femministe perché la proiezione è organizzata in collaborazione con il “Centro per non subire violenza APS (da UDI)”, dove il primo dei due acronimi significa associazione di promozione sociale e il secondo UDI è l’Unione donne in Italia, cioè la sigla più storica del femminismo italiano.
Insomma, nessuno se ne vuole andare, tutti vogliono dire il loro parere, tutti sono sconvolti da un film fortissimo, che è un pugno nello stomaco.
Insomma, è un film da vedere, “Mia”.
Se siete padri, se siete madri, se siete figli adolescenti.
Perché è un film fatto benissimo, ma soprattutto perché racconta una storia che può capitare a chiunque di noi, da genitori e da figli.
La storia è quella di Sergio – Edoardo Leo, all’interpretazione della vita - infermiere del 118 che inizia a notare comportamenti strani in sua figlia Mia, interpretata da Greta Gasbarri, al suo esordio, una ragazza normalissima, alle prese con il suo primo amore, un Riccardo Mandolini perfetto per interpretare il Male.
Tanto che – racconta il regista Ivano De Matteo – “quando l’abbiamo portato con noi in alcune presentazioni del film in sala, c’era chi se la prendeva col povero Riccardo, come se lui fosse il suo personaggio, mentre ovviamente è un bravissimo ragazzo”.
Insomma, De Matteo e sua compagna di vita e di sceneggiature Valentina Ferlan, tornano a raccontare il microcosmo-famiglia con un tocco unico nel cinema italiano: era già successo con “Gli equilibristi”, con “I nostri ragazzi”, che raccontava di come all’improvviso e del tutto casualmente, un figlio potesse diventare un assassino, e praticamente tutta la loro filmografia.
Il racconto stavolta è di come basti pochissimo per rimanere intrappolati in una relazione tossica senza rendersene conto.
Mia – che fin dal nome di battesimo Sergio sente tantissimo come “sua” figlia, sua in ogni senso, è innamorato di questa ragazza come può esserlo un padre - è alle prese con un rapporto ossessivo e possessivo, morboso, il suo primo “amore”, che minaccia seriamente la sua serenità e finisce per usarle violenza fisica e psicologica. Che le ruba gioventù e innocenza.
E le domande che De Matteo e Ferlan si pongono sono domande che possono entrare nella nostra vita ogni giorno, senza bussare: “Qual è il ruolo di un padre in tutto questo? Si può proteggere una figlia dai pericoli e dalle esperienze più dolorose della vita?”
Persino la mamma, interpretata da Milena Mancini, che è il personaggio più positivo del film, con il sorriso sempre pronto, a un certo punto lo perde, quel sorriso.
Non sto a spoilerarvi la storia, ovviamente, anche perché è ricca di colpi di scena.
Ma parto proprio da un elemento che De Matteo spiega benissimo, dopo che lui e sua moglie si sono confrontati con magistrati ed avvocati per rendere credibile la storia, per non “barare” su nulla: “In Italia non c’è stato mai nessun condannato definitivo per revenge porn da quando è stato inserito l’articolo 612 ter del Codice penale”.
E anche il racconto del ragazzo che manda le foto della ragazza nuda, che sostanzialmente ha violentato, a tutte le sue amiche e alle sue conoscenze è qualcosa di incredibile. Un atto odioso e schifoso che va a sbattere contro le norme: “Nel migliore dei casi – spiega De Matteo che ha studiato a lungo la situazione dal punto di vista giuridico – e nel peggiore per questo ragazzo, non finirà in carcere, ma al massimo ai servizi sociali dopo un processo che durerà, fra tutto, fra i sette e i dieci anni. L’accusa dovrà dimostrare che le foto di revenge porn sono state effettivamente mandate da lui, che potrà agevolmente sostenere che il cellulare gli è stato sottratto a sua insaputa. Ma non è finita, perché, anche qualora si passasse questo step ce ne sarebbe uno ulteriore, e cioè l’accusa dovrebbe dimostrare che le foto sono state inviate con l’intenzione di nuocere”.
Ma questa corsa ad ostacoli per ottenere giustizia per le vittime di revenge porn si scontra anche contro i costi di tutto questo: “In casi come questi solo una classe sociale alta può andare avanti. Ad esempio, un consulente informatico che può entrare bene nei cellulari costa più di 1500 euro, sono consulenti di altissimo livello che spesso lavorano anche per i Servizi. Ma è chiaro che non tutti possono permettersi di spendere cifre simili e tantomeno possono avvalersi di esperti di questo tipo gli avvocati d’ufficio. Insomma, la giustizia diventa una questione di classe sociale”.
Ma, davvero, nel film si respira fortissima l’ingiustizia, il “cercavi giustizia trovasti la legge” della storia di Sante Pollastri di Francesco De Gregori ne “Il bandito e il campione”, dove i ruoli fra i buoni e cattivi non hanno aderenza con la risposta della giustizia.
E c’è anche spazio per una polemica con “Mare fuori”, mai esplicitamente citata, anzi omaggiata dal punto di vista tecnico (“un prodotto realizzato davvero benissimo, di qualità”), ma – spiega De Matteo – “Non credo sia giusto raccontare il carcere minorile come un posto dove poi si esce quando si vuole e ci sono le ragazze, si canta e si può andare anche in yacht. No il carcere minorile non è quella roba lì ed è giusto che i ragazzi lo sappiano, perché è utile saperlo”.
E poi, ovviamente, c’è modo di parlare con regista, sceneggiatrice e con Francesca Savino, splendida critica cinematografica che cura le proiezioni speciali di Circuito Cinema con la capacità di metterci dentro, femminilità, maternità, passione e con Elisabetta Caponetto, psicoterapeuta che lavora con il centro antiviolenza della figura del ragazzo narcisista e manipolatore, che è raccontato all’inizio come un “bravo ragazzo”: “Abbiamo scelto di farlo crescere in una famiglia ricca, ammirato dalle ragazze della scuola, con la moto perché è troppo facile usare i cliché di quelli pieni di tattoo che vengono da famiglie disastrate e che fanno MMA tutto il giorno. No il pericolo del ragazzo manipolatore può nascondersi ovunque”.
De Matteo spiega che Sergio, il protagonista di Edoardo Leo è un po’ il suo alter ego e che c’è molto di lui e di loro in questo film: “No, non è la storia di nostra figlia, ma mette insieme anche esperienze capitate ad amici e il personaggio manipolatore può essere anche di una ragazza su un’altra ragazza. E abbiamo provato a metterci dentro tutto: il fatto che i figli adolescenti si fanno abbracciare solo su Tik Tok ma sfuggono alle nostre carezze in casa e le difficoltà di comunicazione”.
Con la domanda delle domande: “Cosa potevano fare i genitori di diverso? Questa è una buona famiglia, i genitori sono uniti, danno regole, ma sono tolleranti”.
Insomma, la soluzione ideale. Ma non basta nemmeno questo.
Su, su fino alla scena di Edoardo Leo-Sergio che continua a vedere i filmini di Mia bambina cantando “Per tutta la vita” di Noemi.
Ecco, è impossibile uscire dal cinema insensibili a ciò che si è visto e sentito.
Segno che “Mia” è un gran film.