Mauro Pagani, la malattia e la rinascita: "Ho perso la memoria. E così mi sono reinventato la vita"
"Una sera di tre anni fa ho cominciato a vedere dei pezzi del mio campo visivo che si spostavano sulla parete di fronte". Una leggenda della musica racconta la malattia e la rinascita: "Resto sempre uno stupido ottimista"
“Una sera di gennaio di tre anni fa ero a casa e ho cominciato a vedere dei pezzi del mio campo visivo che si spostavano sulla parete di fronte. Mi sono detto, ‘bisogna che mi faccia dare un’occhiata’. E invece mi sono ritrovato in ospedale e lì sono peggiorato, ho avuto una roba piuttosto grave e ci sono dovuto rimanere due mesi. Dopo un po’ mi sono reso conto che mi ricordavo dei pezzi del mio passato e altri pezzi non me li ricordavo più. Allora ho chiesto una mano agli amici per aiutarmi a ricordare: “Ma quella volta lì come era finita?”. Poi ho riascoltato i dischi che avevo fatto. Per fortuna dopo un po’ la memoria ha cominciato a tornare. La mia era una cosa grave ma non così grave. In ospedale ero quello messo meglio, perché c’era gente che non parlava più”. Mauro Pagani non ha soltanto il dono di fabbricare bellezza. E sì che ne ha fabbricata tanta nella sua vita randagia da bluesman, come ama definirsi. Ha anche il dono, raro, della semplicità. Di chi racconta un evento infausto con la serena accettazione del “poteva andare molto peggio”. Di chi ha imparato a smettere di correre e ha iniziato ad assaporare il gusto del camminare placido e curioso. Di chi ha iniziato ad apprezzare che ogni giorno possa essere speciale e normale allo stesso tempo. La musica ovviamente fa ancora parte della vita di questo “ragazzo” di 77 anni. E come potrebbe essere altrimenti per chi ha inventato e inseguito melodie nuove e rivoluzionarie? Per chi ha fondato la PFM e ha battezzato il rock progressive made in Italy? Per chi ha firmato con Fabrizio De André capolavori indiscussi della world music come “Creuza de Ma” e “Le nuvole”? Per chi ha collaborato con artisti come Demetrio Stratos e Francesco Guccini, Ornella Vanoni e Roberto Vecchioni, Massimo Ranieri e Gianna Nannini? Ma tutto ora ha un sapore diverso: “È come se mi fossi trasformato da ballerino improvvisatore, dominato da istinti e pulsioni, in un coreografo paziente e riflessivo. Studio, scrivo, rifinisco e definisco subito ogni nota e alterazione, godendo del piacere di immaginarmi come verranno eseguite e interpretate”. Già, perché ora, la sua prodigiosa mano sinistra, quella che volava sul violino e su qualsiasi strumento a corda facendone uno dei più grandi polistrumentisti a livello internazionale, “non mi dà sempre retta”. Ma lui ha trovato lo stesso il modo di cantare e suonare, proprio come farebbe un buon bluesman: pochi accordi e via, una nuova vita da improvvisare. Intervistarlo è un piacere perché come tutti i grandi è pronto a interessarsi del qui e ora più che a spolverare lo specchio su cui riflettere il proprio ego. La consapevolezza fa il paio con l’umiltà. Una lezione di stile oltre che di vita da approfondire leggendo il suo bellissimo album dei ricordi, “Nove vite e dieci blues”, un libro intriso di arte, battute e gustosi retroscena della sua vita nomade che insieme ne racchiude decine di altre per comporre un affresco unico del meglio della musica italiana.
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Il problema neurologico che ha causato l’amnesia ti ha portato a rivivere la vita con occhi nuovi. Che sensazione è stata riscoprirla e poi metterla su carta?
“Quando ero quasi a tre quarti del libro mi sono detto: ‘ma quante cose ho fatto?’. Mi definisco un ‘musicista di facili costumi’. Il libro è pieno di persone con cui ho lavorato e suonato. Ebbene, pensa che ne mancano almeno una cinquantina. Il fatto è che suonare è bello. Ho cominciato in un periodo storico in cui si suonava davvero. Si suonava tanto. Io ho fatto anche i night club; suonavo nove e mezza alle tre e mezza, no stop. I locali allora non avevano un proprio impianto e noi musicisti dovevamo suonare sempre perché sennò non c’era musica. C’erano le ragazze che cercavano di far consumare i clienti e ti capitava di fare dei pezzi che nessuno ascoltava. Ho suonato dei “Blue moon” che duravano anche mezz’ora”. Accanto al tuo nome, compare sempre la parola “polistrumentista”.
Tra i tanti strumenti che sai suonare, qual è quello che senti più tuo?
“Sono sempre stato un pianista molto scadente, usavo il piano per comporre. Lo strumento che ora amo di più è il bouzouki. Ho sempre suonato strumenti che ti permettevano di cantare con difficoltà. Se canti con il violino hai la bocca storta. Il flauto non ne parliamo. Il bouzouki invece è ideale. È uno strumento a corda che è un po’ più di una chitarra e un po’ meno di una chitarra a 12 corde. Ne ha otto e mantiene un suono orientale anche se viene accordato come uno strumento occidentale. Mette le due cose insieme. Che poi è sempre quello che ho cercato di fare anch’io”.
Hai collaborato con tutti i più importanti cantanti e musicisti ma nel libro hai parole di affetto e stima in particolare nei confronti di Demetrio Stratos.
“Era il più bravo di tutti. Si era reso il cammino ancora più difficile facendo la musica più complicata che potesse esserci. Stavamo mettendo insieme un gruppo. E tra l’altro, io ex Pfm e lui, ex Area, poteva essere veramente interessante mescolare le due cose. Purtroppo lui, povero, si è ammalato e non c’è stato niente da fare”.
Sei stato sempre un grande innovatore e precursore. Nel tuo carnet c’è il rock progressive, la world music, la musica folk e quella d’autore. Ma qual è la tua musica?
“Ho ancora un grande amore per la musica progressive, ma quella dell’inizio. Da un certo punto in poi si facevano assoli interminabili e pezzi lunghi 20 minuti. Era diventata più che altro una forma di narcisismo. Noi rispetto ai musicisti rock normali avevamo una cultura un po’ più ampia perché avevamo anche studiato musica classica. E pensavamo ci fosse concesso tutto. Ma non eravamo concertisti. Essere concertista presuppone una vita di studio, mentre noi eravamo un po’ pelandroni”.
Nella tua vita a un certo punto è entrato Fabrizio De André. Insieme avete lavorato per 14 anni e avete dato vita a un capolavoro nel 1984 che è nel cuore di tutti, una pietra miliare della musica “Creuza de Ma”. Nel 1990 poi è arrivato “Le nuvole”. Che cosa ti ha lasciato quell’incontro?
“Con Fabrizio ci siamo incontrati al momento giusto. L’ho conosciuto in uno studio di registrazione al Castello di Carimate. Io stavo facendo la mia prima colonna sonora con Gabriele Salvatores, lui stava registrando “L’Indiano”. Ci siamo cominciati a frequentare poltrendo, guardando la tv, leggendo i giornali, dicendo stupidaggini. È così che si diventa amici. Fabrizio veniva da due dischi con la Pfm dove gli avevamo riempito i brani di mandolini, mandole, chitarre. Ma lui prendendo solo me risparmiava perché da solo suonavo tre o quattro strumenti almeno. E lui, da bravo genovese, risparmiava”.
Nel libro tu lo chiami “il capo”. Ma davvero lo sentivi così? A me sembra che il vostro fosse invece un rapporto alla pari.
“Sì, è vero, era alla pari ma la parità bisogna guadagnarsela. Fabrizio era molto diffidente e pieno di perplessità. Era l’uomo dei dubbi. Ti faceva fare una cosa, poi cambiava idea e te la faceva cambiare. Tu cambiavi e dopo due o tre giorni, lui tornava e ammetteva: “Avevi ragione tu”. Se non lo tenevi, non c’era uscita. A un certo punto io gli dicevo: “Va bene così”. Lui continuava con i dubbi, ma io ribadivo “Va bene così”. Ti guardava male e diceva: “Se lo dici tu…”. Il che voleva dire “Stai attento a non sbagliare, perché sennò saranno problemi per te”. Però in realtà lui aveva bisogno di qualcuno di fianco di cui si potesse fidare. Credo che sia questa la cosa che più gli sia mancata quando abbiamo smesso di lavorare insieme e lui ha fatto “Anime salve” e il tour legato a quel disco. Lui era sempre l’uomo del dubbio. Gli altri facevano fatica a tenerlo. A volte il sound check finiva alle otto e un quarto di sera, quando il concerto stava per cominciare. Perché lui continuava: “E belin, si sente poco la chitarra. È troppo scura, è troppo chiara…”.
Gli mancavi...
“Sì, gli mancava un sergente che lo ascoltava, gli dava retta e poi a un certo punto gli diceva “va bene così”. “Belin ma sei sicuro?”. “Va bene”. Perché lui aveva paura dell’imprevisto.
Nella tua vita a un certo punto è entrato pure il Festival di Sanremo. Per due anni, nel 2013 e 2014, sei stato il direttore artistico del Festival. A condurlo era Fabio Fazio. Che esperienza è stata?
“È stato un rischio. Ci vuole coraggio, ma si impara un sacco. Tu hai dei pezzi arrangiati da colleghi bravi, ti arrivano le parti e tu li devi ascoltare e provare. Li smonti in pratica. Non sempre ti capita un’orchestra di 70 elementi a disposizione che suona quello che dici tu. Io ero spaventato. Quando ti infili in un terreno infido ci vuole un bravo assistente. Io ho preso Gabriele Comeglio che è uno diplomato a Berkley, preparatissimo sugli strumenti a fiato su cui io ero meno bravo. Io ero forte su quelli a corda. Quando mi hanno telefonato e mi hanno detto se volevo farlo ho detto: “Scusate devo fare una telefonata”. “Pronto Gabriele, ci sei?”. “Sì”. “Allora lo faccio”. E ho imparato molto”.
Ora che cosa hai voglia di continuare a fare? Qual è la sfida, il sogno su cui vuoi esercitare il tuo talento?
“Sto facendo molte colonne sonore perché c’è molta libertà. Quello che ti offre l’universo della canzone è un po’ riduttivo”. La musica è molto cambiata, ci sono le basi pronte. C’è molta elettronica. “Ma magari ci fosse musica elettronica. In realtà quella di oggi è merce, il che è diverso. La musica elettronica ha mille possibilità: con i sintetizzatori si sono moltiplicate le strade della musica. E così dovrebbe essere vissuta la musica elettronica nel suo essere. Ma oggi non è così. Perché il mercato è sempre più stretto, si vendono sempre meno dischi e quindi quello che si faceva una volta magari con troppi soldi, ora lo si fa al risparmio massimo. Se ti permettono di fare delle cose chi se ne frega. Ma se devi realizzare merce da banco, allora no. Non sono neanche bravo. Non ho quel colpo d’occhio. Il tempo passa e bisogna accettarlo. Fare colonne sonore invece mi fa sentire libero. Parli con il regista e in genere ti ascoltano”.
Che cosa hai imparato dalla disavventura che ti è capitata? Che cosa cosa ti ha lasciato nel bene e nel male questo problema di salute? Che cosa hai scoperto di te?
“A un certo punto quando ero in ospedale da un mesetto mi sono guardato in giro e ho visto come era conciata la gente che era ricoverata. Ho realizzato di essere quello messo meglio: parlavo ancora, potevo camminare, potevo vivere. Mi sono sentito molto fortunato. Mi è venuto un calore e un amore per la vita incredibili. Ho imparato a prendere la vita come un regalo smettendo di correre troppo. Perché io ho corso troppo per tanti anni. Ho fatto tanti lavori. Mi ero anche infilato in una situazione economica difficilmente sostenibile perché l’etichetta discografica Officine meccaniche assorbiva tante risorse. Non sono mai stato bravo a risparmiare e non ho mai avuto tanti soldi. E così mi sono trovato nella necessità di inventarmi un sacco di lavori che da un lato mi hanno insegnato un sacco di cose ma dall’altro mi hanno un po’ consumato. Ora faccio quello che mi piace fare. Sono più libero”.
Questo è nel bene. Ma nel male? Che cosa ti ha lasciato. Paura?
“No. Non ho avuto nemmeno il tempo di spaventarmi. A un certo punto mi sono svegliato e ho visto che c’erano certe parti del mio corpo che funzionavano di meno. Però io sono sempre uno stupido ottimista. Mi sono detto, ‘vabbé, non sono morto e me la caverò’”.