Giovanna Mezzogiorno: “Dicono che sto male, mi drogo, sono alcolizzata e prendo psicofarmaci. Tutte leggende metropolitane”
L'attrice racconta che nei periodi in cui lavora poco, subito fioriscono dicerie sul suo conto e sulla sua salute, pure mentale. La vita e la carriera di una grande interprete italiana
Una donna, e interprete per tutte le stagioni (e i ruoli), insignita qualche anno fa del prestigioso titolo di Chevalier de l’Ordre des Arts et des Lettres, onore attribuito a quegli artisti, che maggiormente si sono contraddistinti nella diffusione delle arti e delle lettere, in Francia e nel mondo. Chissà se Giovanna Mezzogiorno se lo sarebbe mai aspettato oltre 25 anni fa, quando, giovanissima, cominciava a calcare i teatri di Parigi, partendo dal debutto con Peter Brook, suo grande mentore, e iniziando una ricerca che l’ha fatta diventare in poco tempo una delle attrici più apprezzate e richieste, sul palcoscenico, e poi al cinema. Nei suoi ruoli, così diversi, volitivi, grintosi, talvolta difficili, non ha saputo solo tradurre fisicamente ed emozionalmente chi impersona, ma ha portato ogni volta qualcosa di più, risultando lei stessa modernissima e di tendenza. Donne di polso, libere di amare e non cedere a proprio destino, come ne Il viaggio della sposa di Rubini, ma anche fragili, con la capacità però di mettersi sempre in discussione, di non arrendersi. Un po’ come lei. È stata Ilaria Alpi, giornalista uccisa a Mogadiscio, rappresentata perfettamente ne Il più crudele del giorni, Ida Dalser, compagna rinnegata da Mussolini in Vincere, in una delle sue performance più acclamate. E ancora Silvia Tortora, Fermina Urbino, figura chiave ne L’amore ai tempi del colera tratto da Marquez, arrivando oltremodo a mettere in scena col medesimo spirito storie, inquietudini, dolori ed entusiasmi attuali, dalla Giulia de L’ultimo bacio di Muccino, alla Sabina ne La bestia nel cuore per Cristina Comencini, riuscendo a dar voce alla magia creativa, scritta, iconica, di Natalia Ginzburg, Emily Dickinson e Alida Valli.
«Metto sempre tutto quello che posso nel lavoro che faccio, facendo piccole, grosse cose», ci racconta in esclusiva.
«Non mi interessa la quantità semmai è la qualità, ma soprattutto il rapporto delle persone con cui lavoro e collaboro. È fondamentale. Ho fatto film in cui ho avuto un ruolo super principale, in cui ero sempre in scena, come Vincere, o La bestia nel cuore, e anche film in cui sono stata magari in tre scene. È quello che io sento e in cui credo, è importantissimo dare, ma anche ricevere, perché nel momento in cui io do, è perché sto ricevendo qualcosa».
Foto © Gianfilippo De Rossi - Ansa
Una carriera poliedrica, in cui fuori dal set ha saputo sempre rispondere a tono, anche quando, in una intervista su Oggi, pubblicata l’anno scorso, ha ribattuto a volgari insinuazioni sul suo conto e sulla propria fisicità. “Appena lavoro di meno, partono le leggende metropolitane. Dicono che sto male, che mi drogo, che sono alcolizzata, che prendo gli psicofarmaci. Fra un po', faccio pure le rapine”. Una vita professionale unica dunque, ma che si contrappone ad un privato invece di madre di due gemelli, semplice e custodito gelosamente, e che forse l’ha resa maggiormente affascinante nella sua “apparente” normalità e quotidianità. Donne e universo al femminile, raccontato attraverso personaggi mai banali, come nell’ultimo Amanda, in cui interpretava la madre di Benedetta Porcaroli, diretta da Carolina Cavalli, e che, la regista, non smette mai di ringraziare. «Carolina è “pazza”, ma questo è universalmente noto», scherza. «Io partecipo a qualcosa se ci credo. Carolina ha talento, e Amanda è stata una grandissima opera prima, pertanto c’ho partecipato con tantissimo affetto».
La incontriamo alla 30esima edizione di Sguardi Altrove Film Festival di Milano, dedicato alla produzione e cinema al femminile, per presentare un nuovo lavoro, Educazione fisica (dal 16 marzo in sala, distribuito da 01) di Stefano Cipani, tratto dall’opera teatrale, La palestra, di Giorgio Scianna. Una storia densa ed immersiva, ben ancora al contemporaneo e all’attualità, in cui si racconta di alcuni genitori (da Claudio Santamaria ad Angela Finocchiaro, da Sergio Rubini a Raffaella Rea), convocati da una preside (interpretata proprio da lei) per qualcosa di grave scoperto a carico dei loro figli dodicenni, accusati di aver stuprato, proprio in quella palestra, una compagna di classe, e di cui esiste un video senz’appello. Un incontro-scontro infernale in stile Carnage di Polanski, in cui i caratteri esasperati, egoistici, vengono fuori gradualmente, ma dove si affrontano però temi importanti, sull’essere genitori, sui limiti da poter o meno superare, sulle responsabilità e i confini, su cosa sarebbe meglio, o no fare.
«Da quando ho intrapreso la tematica di questo film», dice la Mezzogiorno. «Io, se i miei figli facessero qualcosa di così grave, li condannerei, con tutto il dolore che ne deriverebbe, ma non potrei fare altrimenti. Non c’è giustizia per questa roba qua. Noi, io e il padre dei miei ragazzi, abbiamo fatto fatica per educarli, pertanto, se abbiamo fallito, in parte abbiamo fallito noi, ma molto hanno fallito loro, quindi si devono prendere la responsabilità e devono pagare».
«Quello che tu fai, dai» conclude, «è onestamente un bagaglio che porti, è un po’ un piccolo regalo che fai ad un’opera: rivela il tuo livello di fragilità sicuramente, il tuo livello di empatia con le cose che fai, con le persone che ti dirigono, e con il ruolo che rappresenti. È comunque una costante scoperta».