Questo Festival è l’autotune dello spettacolo dal vivo

Si ride per inerzia, ci si emoziona su comando. Anche le battute più trite trovano il loro spazio, persino quando ridicolizzano il corpo delle donne. Se il pubblico è ammaestrato, lo spettacolo non è più uno spettacolo

di Maria Beatrice Alonzi

A questo punto dovremmo essere abituati. All’ovatta, all’assenza di senso, alle domande che non chiedono nulla e alle risposte che non dicono niente. Dovremmo averci fatto il callo a questa strana liturgia del vuoto che si sta celebrando dentro e fuori il 75esimo Festival della Canzone Italiana, dove si chiede insistentemente di ridere della pelle flaccida delle donne (non farti ingannare – è stata una donna a proporre l’esilarante gag) e si chiedono preferenze per tracciare l’identikit dell’uomo perfetto, passando dal domandare cosa dovrebbe e non dovrebbe fare il gentiluomo di turno al primo appuntamento, e che colore dovrebbe avere gli occhi o i capelli per conquistarci tutte (la Crusca su queste domande si è probabilmente dissolta, sgretolata); come se fossimo intrappolati dentro un “Vacanze di Natale” qualunque, ma non è Dicembre e non è nemmeno il 1990, anche se il vuoto è così gommoso ed elastico che se lo tocchi ti rimbalza indietro, come avrebbe fatto un pugno dato al Mike Tyson di allora (ogni riferimento al machismo è scritto senza alcuna casualità).

Battute stantie e applausi automatici: la liturgia del vuoto

Eppure, anche se lo sappiamo, anche se ci siamo già passati, anche se ogni sera di questo Sanremo è la stessa sinfonia stanca di siparietti scritti con la vernice ad acqua (eccezion dovuta per l’impareggiabile Nino Frassica), ogni volta ci colpisce lo stesso.
Forse perché ci ricordiamo che, in teoria, lo spettacolo, l’arte, la musica e pure la televisione dovrebbero essere qualcos’altro.

I Coma_Cose e il grido contro l’epoca dei cuoricini

I Coma_Cose lo hanno detto meglio di chiunque altro, senza bisogno di monologhi: “Stramaledetti cuoricini, cuoricini, che mi tolgono il gusto di sbagliare tutto”.

Sanremo e il paradosso della disabilità: ancora un racconto monco

Ed è tutto qui. Il like a tutti i costi, la necessità di piacere anche quando non c’è nulla di vero, la fame di attenzione che ci trasforma in contenuti pronti a estetiche prêt-à-porter. Anche stanotte, in questo Festival costruito sulla paura di pestare i piedi a qualcuno, dove nessuno osa, nessuno rischia, nessuno sbaglia, nessuno dice, persino parlare di disabilità (il cortile per eccellenza dove si incontra ogni modo di essere normali) diventa, per la seconda volta in così pochi giorni, uno sminuzzato identificare la persona con ciò che gli manca, invece che con ciò che è e può.

Cuori contro cuoricini: il problema è il bisogno di piacere a tutti i costi

Abbiamo perso il desiderio di avere un’identità che sia solo nostra, per così tanta paura di cadere, o di far scappare qualcuno che potrebbe metterci un cuoricino e poi spezzarci il cuoricione; ci siamo completamente dimenticati il bello sta nella diversità degli intenti, dei pensieri, delle storie, dei racconti, nel rischio. Nel fallire, nel dire la cosa che ci siamo appuntati perché è bella e non la usiamo mai (come fa Rkomi con le parole inusuali come “ardito” o “lapalissiano”), per la quale non dormire la notte, tentando di prendere una nota che non passi attraverso l’autotune dei sentimenti.

E invece no. Tutti in piedi per Iva Zanicchi, applausi di rito per questo e quello, le ovazioni distribuite con la precisione di un algoritmo che sa esattamente prevedere quando il pubblico deve esultare e quando deve stare in silenzio. E guai a sbagliare: una mano del conduttore smorza un gesto della co-conduttrice non approvato in prova, a mezz’aria. E lì, in mezzo a tutto, c’è un bambino-enciclopedia che sa tutto del Festival ma che non ha ancora vissuto abbastanza per capire che questo Sanremo non gli sta insegnando niente. Ed è così brutto quando un contenitore di arte diventa il tupperware del pensiero, confinato, recinto, niente parmigiana di melanzane del giorno prima: solo cuoricini.

Siamo tutti lì, inchiodati al divano, con il telefono in mano, per controllare come andiamo al  Fantasanremo, per leggere che succede sui social, per guardare i Meme, per cercare i gossip, per scrollare i video su TikTok mentre ci annoiamo: se non siamo overstimolati la maggior parte del tempo, siamo costretti a riflettere su quello che ci fa soffrire, le emozioni prendono piede, ci sembra quasi di allucinare che Battiato abbia iniziato la serata per poi renderci conto che era Bennato e che non è il Festival ad essere brutto, forse siamo noi. Che mettiamo cuoricini sotto la fine di un mondo che è già crollato e nemmeno ce ne siamo accorti. Perché anche sotto la notizia peggiore, quella che dovrebbe sconvolgerci, la prima reazione non è più un grido, una presa di posizione, un atto di ribellione. È un like o un commento piccato. Un cuore o un folllowing che se ne va. Anche tu e io stiamo sui social, lo so: ma far parte di un mondo grigio, non mi impedisce di stare qui con te per qualche minuto a lamentarmi dell’ultima volta che abbiamo colorato. Mi voglio prendere la resposabilità di ciò che facciamo tutti i giorni, tu e io, insieme, perchè così pesa meno sulle mie spalle e forse, spero, anche sulle tue.

Quella di stasera è stata la celebrazione di tutto questo. L’evento più atteso, più discusso, più guardato, arrivato alla sua serata centrale, come un’enorme pozza che aberra, anzi “una pozzanghera e l’ansia mi afferra / Con lo sguardo verso il cielo / Ma il morale per terra”.

La domanda finale

Ma i Coma_Cose una cosa ce l’hanno lasciata. L’hanno detto chiaro: il problema non è il cuore, è il cuoricino. È il bisogno di validazione, è l’ansia da prestazione, è la voglia di essere amati a tutti i costi anche a scapito di ciò che siamo davvero.
E allora, alla fine di tutto, la domanda vera è una sola: qual è la prima cosa che guardi in un uomo?
A domani.