Uomini che si feriscono da soli pur di non combattere più: Alessandro Borghi e l'impotenza della guerra
Il "Campo di battaglia" di Gianni Amelio è l'ospedale in cui arrivano i feriti della Grande Guerra e in cui due medici reagiscono in maniera opposta: uno li vuole rispedire al fronte, l'altro invece è disposto a provocare altre ferite pur di risparmiargli la battaglia
Gianni Amelio non è un regista qualunque, ogni lavoro, film, parola detta, discorso, sedimenta, provoca, riflette. Dal primo lavoro, Colpire al cuore, in cui dirigeva un attore come Jean-Louis Trintignant, passando da Lamerica (Leone d’Oro a Venezia esattamente 30 anni fa), Il ladro di bambini, Il signore delle formiche, il suo cinema sa mutare, ma non si snatura. In questa direzione è anche l’ultimo lavoro, Campo di battaglia (in sala dal 5 settembre distribuito da 01 Distribution, ndr), tratto liberamente dal libro di Carlo Patriarca, La sfida, in concorso al Festival di Venezia 2024. Una guerra mondiale, vista in maniera inedita Una storia che ci riporta sul finire della Prima Guerra Mondiale.
Autolesionismo e due medici nella battaglia dei corpi
Al centro due ufficiali medici, grandi amici d’infanzia: Stefano (Gabriel Montesi) e Giulio (Alessandro Borghi), uno più rigoroso e severo, l’altro apparentemente più tollerante e comprensivo, che nella vita avrebbe avrebbe voluto fare il ricercatore, piuttosto che contornarsi di sangue e dolore. Entrambi lavorano nello stesso ospedale militare, e ogni giorno assistono l’arrivo dal fronte dei feriti più gravi. Uomini ormai minati nel corpo, mutilati, storpi, e soprattutto nella mente e spirito, al punto da diventare autolesionisti, pur di non tornare a combattere. Sono dei simulatori. Stefano ne è ossessionato e li “combatte” dimettendo chi vuole aggirare il proprio dovere, e chi non obbedisce sa che è destinato al Tribunale miliare. L’ospedale diventa, oltremodo, come un altro campo di battaglia, nel quale aleggia un sabotatore, qualcuno disposto a provocare e aiutare il peggioramento di quei degenti e delle ferite, così che possano rivedere smettere di soffrire e rivedere casa.
L’infermiera coraggiosa
In una prospettiva al maschile Anna, amica sia di Giulio che Stefano dai tempi dell’università, rompe gli schemi. Un’infermiera coraggiosa, capace di prendere posizione e agire, in un periodo in cui essere soltanto donna era qualcosa quasi da scontare, un marchio da dover portare addosso, ma è la stessa che prova a guardare le cose da altre prospettive. La guerra, e quel campo di battaglia, stanno per espandersi, di lì a poco ci si ritroverà a dover respingere un altro nemico, una terribile pandemia, la Spagnola, pronta a fare migliaia di morti, anche tra i civili inermi. Analogie con quello che oggi, e nel 2020, abbiamo vissuto, assistendo e vivendo i conflitti in atto e il Covid.
Non ragioniamo più ma subiamo le emozioni
“Questo è un film non di guerra, ma sulla guerra, che va visto in sala e non in tv», racconta un accorato Gianni Amelio. “Le immagini a cui ci siamo assuefatti in tv, così usurate, oggi sembrano quasi irreali, ne vediamo troppe. La guerra, però, è anche vedere di un affondamento di un gommone. Non siamo in grado di ragionare, subiamo le emozioni”. La pellicola, come poi dice infine un bravissimo Alessandro Borghi, è “anche una riflessione sul giusto e sbagliato, sul bene e male”, e riguardo a cosa (noi) vogliamo davvero credere, riguardo il nostro senso di responsabilità.