Alice Rohrwacher confessa tutte le sue insicurezze: “I miei vicini pensano non faccia dei veri film”
Dal 23 novembre esce La Chimera, il suo ultimo gioiello. Ecco la nostra intervista
Alice Rohrwacher, prima di diventare regista affermata e premiata, avrebbe voluto qualcos’altro, lo sottolinea, ovvero “l’archeologa”, ci dice, “l’ho sempre desiderato, da quando studiavo Lettere Antiche e Letteratura Greca all'università”.
Un aspetto noto per chi la conosce, ma che di fatto non ha mai lasciato da parte, anzi, al contrario, lo ha sviluppato attraverso un cinema di ricerca e scoperta, in viaggi d’esplorazione umana, emotiva, di memorie e radici, ma per lei profondamente in linea col suo stile evocativo e minimale. È una regista fuori da facili classificazioni, stratificata, una sognatrice. Quando la incontriamo all’ultimo Zurich Film Festival, ce lo rammenta durante la chiacchierata, “si può raccontare qualcosa che è compiuto: trovo delle tracce, inizio a scavare, poi metto insieme dei reperti”. E come una vera archeologa inizia a scavare come i suoi personaggi messi in scena, nei frammenti e destini delle loro storie, riannoda tutto, dandone forma e senso. I suoi film hanno titoli sempre suggestivi, Corpo Celeste, Le Meraviglie, Lazzaro Felice, creano qualcosa di inaspettato nello spettatore, uno stupore.
Cos'è l'archeologia per una regista come lei?
Vedere la fine delle cose, sapere che anche l'epoca che stai vivendo avrà una sua fine.
Ed un film?
È quando esci fuori e rendi il tuo sguardo straniero vedi le cose da altre prospettive. In questa direzione lo è anche il progetto passato in concorso allo scorso Festival di Cannes, La Chimera, in sala dal 23 novembre. Un gioiello da custodire. Un’avventura stratificata, tra vita e morte, tra sacro e profano, tra visibile e invisibile, girata nelle zone della Tuscia, per narrare qui le scorribande di una banda di tombaroli, a caccia di reperti etruschi sotterranei e guadagni facili. Siamo negli anni ‘80, un periodo-boom legato al traffico illegale di questi tesori, e così della criminalità locale che se ne vuole impossessare, di un consumismo già aggressivo, ma nel quale questo gruppo di persone, uomini invece d’altri tempi, diventano osservatori e ingranaggi per aprire la soglia di altri mondi, profanandone lo spirito e il mito fin lì sepolto, rispettando certi ideali. Tra di loro, ad un certo punto, ricompare Arthur (interpretato da Josh O’Connor, attore-simbolo nella serie The Crown nei panni di Carlo d’Inghilterra e prossimo in quello di Luca Guadagnino, Challengers, ndr), un giovane archeologo inglese, solitario, un po’ buffo e impacciato. Di lui sappiamo ben poco, se non che celi un vissuto, ma è la persona migliore per cercare quei tesori nascosti. È sensibile, ha doti da sensitivo, sente e vede i luoghi, gli oggetti, è un visionario dell’ignoto, porta con sé un vuoto (d’amore) da colmare, un dolore, con cui fa i conti. Ognuno allora, alla fine, insegue (senza riuscirci) la propria utopia di vita, quella Chimera appunto, che talvolta sembra avere sembianze di fantasmi appannati, di ricordi frammentati e con cui convivere, o, semplicemente, ha caratteristiche di statue e monili meravigliosi, a cui provare a ridare luce, o lasciare magari nell’oblio. La chimera è una pellicola di contrasti, dotata di una tale forza poetica ed espressiva, che in alcuni punti assume toni sovversivi, per come riesce a ritoccare alcuni temi cari alla Rohrwacher: c’è la violazione, la profanazione, quel rapporto con l’invisibilità. È una pellicola libera, che fino in fondo non ci inganna mai. Come lei.
In fondo a tante meraviglie, lei cosa ha scoperto di sé invece?
Spero sia una domanda che mi possa fare più avanti. Perché c'è una calamita, un magnetismo, dentro a questo lavoro, che io sento come un'evidenza, ma è anche una grande e profonda lotta. Chiaramente viviamo in un epoca in cui l'immagine è diventata il centro del problema, lo strumento principale del potere, dell'economia e del commercio. A volte io sono molto afflitta.
Come mai?
Mi sembra che l'unica cosa di cui il mondo non abbia bisogno siano altre immagini. Tante volte mi domando se cambiare o no direzione, mi chiedo proprio perché questo lavoro... ed è lì allora che sento che il mio compito è proprio quello di creare un immagine che nasce, che non è una copia di niente, ma che è semplice. E quindi raccontare come le immagini possano ancora nascere e non soltanto vendere, essere usate come strumento non inflazionato, e possano essere anche una rivelazione. Così nascono le immagini.
Ha paura dell’Intelligenza Artificiale, e di come altre parole e immagini possano nascere?
Se dovesse succedere, cambierei lavoro prima. Non sono preoccupata, credo che solo la stupidità naturale guidi il mondo, che la differenza profonda tra l'umano e la macchina è nella possibilità di fare cose non perfette. In qualche modo l'uomo può ancora fare cose che tendono verso, ma che non arrivano mai, può creare delle chimere, questa necessità di conoscenza. Noi abbiamo bisogno dell'inceppo, dell'errore, le macchine non sono ancora brave a sbagliare.
Dove trova la sua di libertà espressiva?
Vivo in un posto dove nessuno è interessato al mio lavoro, sto in campagna, lì mi guardano con compassione, come una persona che si occupa solo di cinema, e non capiscono perché non guadagno abbastanza. Vivo in una casa diroccata quasi, vecchia, senza riscaldamento, e mi chiedono "Perché non fai un vero film?”
Cosa risponde?
I miei vicini, quando sono venuti a Cannes lo scorso maggio, mi dissero: “abbiamo sperato che questa volta facessi veramente un film, ma non ci sei riuscita, hai perso ancora l'occasione”. La realtà che mi circonda (ride, ndr) non mi aiuta a essere così sicura di me stessa, è l'opposto, continuo a essere piena di domande, per me è sempre la prima volta. Ecco perché devo ancora convincerli, guardano i miei film e sono costretti a pensare troppo.