Morte di parto: 'In certi casi è meglio partorire in casa che in ospedale'
Per la giornalista Elisabetta Malvagna, autrice di 'Partorire senza paura', l'eccesso di medicalizzazione ha modificato la fisiologia della nascita
Dopo i cinque casi di partorienti decedute in ospedale in una settimana, la sanità italiana si trova sotto accusa e prova a reagire snocciolando statistiche che vedono l'Italia tra i paesi occidentali con la più bassa incidenze di mortalità materna. Le medie parlano di 50 morti di parto l'anno, per lo più per emorragia. Cinque casi in una sola settimana potrebbero quindi essere un’anomalia. Abbiamo parlato del fenomeno con Elisabetta Malvagna, giornalista, scrittrice e blogger che da anni studia il fenomeno del parto in Italia. Nei libri “ Partorire senza paura” e "Il parto in casa", Malvagna, mamma di due bambini nati in casa, lancia un appello alle future mamme perché imparino ad avere fiducia nei confronti del parto e perché non rinuncino alla possibilità di decidere consapevolmente come far nascere i propri figli.
Che idea si è fatta di questi casi di cronaca. È tutto nella norma o no?
“La prima cosa che mi è venuta in mente dopo questi casi di morti materne è che durante le festività è meglio non partorire, non ammalarsi e in ogni caso non recarsi in un ospedale: il personale è minore e l’attenzione alle procedure calano. Da quando la nascita e la morte sono stati ospedalizzati, è stato sottratto alle famiglie il naturale rapporto con chi nasce e chi muore. Sono 15 anni che seguo questi temi e quando lavoravo per l’Ansa ho preparato un dossier sulla malasanità in cui ho descritto decine di casi simili a quelli degli ultimi giorni”.
Cosa succede?
“Non è tanto colpa delle strutture, che pure a volte sono inadeguate. Il problema è che spesso in sala parto il processo fisiologico del parto viene interrotto perché la donna non si sente protetta e sicura. Bisogna che le donne capiscano che sono capaci di partorire, siamo fatte a posta per quello. Il problema è nato quando l’uomo è entrato nel processo del parto creando la medicalizzazione, il che non elimina i rischi perché l’evento comporta sempre un rischio. Da quando l’uomo è entrato in questo processo la donna è stata eliminata dalla scena. Sono almeno 50 anni che le cose vanno in questo modo”.
Qual è la sua esperienza?
“Io ho parlato con tantissime donne che mi hanno raccontato tutte lo stesso percorso: il travaglio in casa procedeva benissimo, poi si sono rotte le acque e dopo la corsa in ospedale, arrivate al reparto, il travaglio si è interrotto perché all’improvviso si sono trovate di fronte a persone e procedure sconosciute, fretta, mancanza di compassione e comprensione. In questi casi la donna diventa un numero, un contenitore da svuotare nel più breve tempo possibile perché il protagonista vero è diventato l’orologio”.