Oggi sarebbe una giovane donna di 26 anni, forse il medesimo sorriso, limpido, solare, di certo non più l'apparecchio per i denti come in quella foto che la cristallizza in un tempo lontano. Quella foto in cui indossa la tuta da ginnastica ritmica, guarda l'obiettivo con la serenità di una bambina che ha la vita davanti. Una bambina di 13 anni, appena adolescente, che si chiamava Yara, Yara Gambirasio, cresciuta in una famiglia tranquilla: la mamma Maura insegnante in un asilo, il papà Fulvio geometra e i tre fratelli Keba, Giona e Natan. La scuola, la ginnastica e poco altro. Non ci sono diari scottanti in questa storia, chat sconvolgenti o tracce pericolose sui social.
Foto Ansa
Tutto è semplice, lineare nell'esistenza dei Gambirasio fino al 26 novembre 2010 quando Yara sparisce in appena 700 metri. Questa la distanza tra la casa e la palestra dove Yara era andata ad allenarsi, la palestra di Brembate di Sopra, un borgo in provincia di Bergamo, meno di 8mila anime. Sparita, volatilizzata. La cercano ovunque, la cercano volontari e forze dell'ordine. Setacciato ogni angolo, ogni anfratto. Passano i giorni, si moltiplicano gli appelli, le piste degli inquirenti, c'è un primo indagato il 5 dicembre: è un giovane operaio marocchino del cantiere di edilizia di Mapello dove i cani molecolari sembrano aver rilevato l'ultima traccia di Yara. Ma ha un alibi di ferro, non c'entra.
Morta di freddo e di stenti
Le ricerche continuano. Fino al 26 febbraio 2011, quando un aeromodellista impegnato a provare un piccolo velivolo in un campo, vede un corpo. Siamo in un'area incolta a Chignolo d'Isola, circa 10 chilometri da Brembate di Sopra. È lei. È Yara. A eseguire l'autopsia è tra le più capaci professioniste in Italia: Cristina Cattaneo. La vittima presenta ferite inferte con una lama molto affilata, una al collo, le altre sul corpo, un trauma cranico prodotto da una spranga o un grosso masso. Non ci sono invece segni di abusi sessuali. Yara però non è morta per la violenza dell'aggressione, ma per il freddo, gli stenti, la debolezza, il sangue perso. Il che rende questa vicenda se possibile ancora più tragica.
Il dna di Bossetti prelevato con un trucco
Vengono isolate delle tracce di Dna sugli indumenti intimi e sui leggins della ragazzina. E da qui si parte. Dal segno genetico dell'Ignoto numero 1, verrà definito così dagli investigatori. Si procede con uno screening a tappeto su migliaia di persone, 22mila per l'esattezza. E a un certo punto si arriva a un uomo. È Giuseppe Guerinoni, autista di autobus di Gorno (Bergamo) morto nel 1999. Sarebbe lui il padre naturale di “Ignoto 1”. Manca la figura femminile per chiudere il cerchio. Non sono indagini facili, sono decine e decine di tessere di un puzzle da incastrare, mettere assieme. Si risale a una donna, Ester Arzuffi che avrebbe avuto una relazione col Guerinoni mettendo poi al mondo due gemelli, una femmina e un maschio. Il maschio si chiama Massimo Giuseppe Bossetti, gli viene prelevato il Dna con un trucco: il controllo del tasso alcolico attraverso un etilometro mentre sta guidando. Il profilo genetico dell'Ignoto 1 coincide con quello di Bossetti, incensurato e operaio in un cantiere di Mapello, il luogo cioè in cui sono state individuate le ultime tracce di Yara.
Ma il filmato del furgone è stato artefatto
È fatta, caso risolto, lo dice in tv anche l’ex ministro dell’Interno Alfano con pochissima prudenza. Non solo. Gli investigatori e la Procura sbandierano anche un'altra presunta prova che riguarda il via vai del furgone dell’indagato - ben 13 volte - davanti alla palestra di Yara, ripreso da ben 5 telecamere. Ma non è così. Il comandante dei Ris, in sede processuale, ammette che il filmato dato in pasto ai media e rilanciato su ogni tv ogni sito Internet è volutamente artefatto, che un veicolo bianco in realtà è stato individuato una sola volta mentre percorre la strada e poi torna indietro. Una sola volta da una sola telecamera con immagini non esattamente nitide. Fatto grave. Gravissimo.
Condannato all'ergastolo ma lui si dice innocente
Inizia comunque il processo per Bossetti, scagionato anche dalla moglie che afferma che il 26 novembre del 2010 l'uomo era a casa con lei. Il 26 febbraio 2015 la Procura della Repubblica di Bergamo chiude ufficialmente le indagini indicandolo come unico imputato. Per tutti i gradi di giudizio l'operaio di Mapello viene considerato colpevole dai giudici, fino all'ultimo pronunciamento - quella della Cassazione del 12 ottobre 2018 - che lo condanna all'ergastolo. Lui, dal carcere, continua a dire di essere innocente. Dice che è tutto un abbaglio, che così non si rende giustizia a Yara.
L'indagine per frode processuale e depistaggio
Più volte i legali di Bossetti hanno chiesto di poter visionare i reperti dell’inchiesta. La prima volta nel 2020, la seconda l'anno successivo, istanze rigettate dalla Corte d’Assise di Bergamo. Dopo la condanna definitiva le 54 provette contenenti le tracce biologiche dell'imputato e di Yara vengono spostate dal frigorifero dell’ospedale San Raffaele di Milano all’ufficio corpi di reato del tribunale di Bergamo, su decisione di Letizia Ruggeri, la Pm che si è occupata delle indagini fin dalla denuncia di scomparsa della ragazzina. Le provette impiegano ben 12 giorni ad arrivare e, secondo i difensori di Bossetti, viene così interrotta la catena del freddo e deteriorato per sempre il materiale biologico. Per questo motivo nel dicembre 2022 la sostituta procuratrice Ruggeri è indagata dal gip di Venezia per frode processuale e depistaggio. Le richieste dei legali dell'imputato vengono accolte solo nel maggio 2023 dalla Corte di Cassazione ma a un patto: gli avvocati di Bossetti potranno accedere ai reperti ma non eseguire nuove analisi.
Il fratellino: "L'ho sognata, era al mare"
Una storia infinita, insomma, che si consuma ancora tra film, libri, duelli tra colpevolisti e innocentisti. Nel riserbo doloroso della famiglia Gambirasio rotto solo da una dichiarazione di uno dei fratellini della vittima che in una lettera ha scritto: "Forse la persona che hanno trovato in quel campo non era lei, forse l'hanno solo rapita. L'ho sognata, era al mare". Perché la speranza di chi ci ama non muore mai, neppure davanti all’evidenza più drammatica.