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Gabriella Ferri zingara bellissima e regina di Roma: dal successo al mistero della sua morte. Quel volo fu un suicidio?

Gabriella Ferri zingara bellissima e regina di Roma dal successo al mistero della sua morte Quel volo fu un suicidio
di   Daniela Amenta

In questa storia, ad attraversarla in lungo e in largo, c'è un fiume. C'è il Tevere, ci sono le sue anse di canneti e sabbie mobili, il biondo che diventa giallo, la vena acquatica di Roma, la carotide di una città. In questa storia c'è una bambina cresciuta a un passo dagli argini, quartiere Testaccio, testaccina per sempre perché l’odore del Tevere è un imprimatur. E' un segno indelebile. Come quel quartiere a un passo dal centro ma distante da ogni vetrina, da qualunque salotto, un cuore popolare e indomito. Come lei. Maria Gabriella Ferri, nata il 18 settembre del 1942, bionda biondissima, figlia di un venditore di caramelle, cresciuta tra Ponte Mollo e i misteri di quei vortici d'acqua senza sale.

Quando pensava di fare la modella

C'è il dolce in questa storia, c'è il fiume, c’è Roma imperiosa, barocca, assoluta e stracciarola, c'è una lingua antica - il romanesco - che non era il dialetto ibrido di oggi ma idioma di Papi e poeti. E c'era lei quindi, cresciuta ascoltando gli stornelli, bella che tutti si giravano, che infatti pensava di fare la modella o l'attrice. Ma poi il Dio Tevere le donò la voce e lei si mise a cantare.

Foto Ansa

Fece ogni tipo di gavetta Gabriella Ferri, commessa, apprendista, e infine cantante con l'amica Luisa De Santis, figlia del regista Giuseppe, quello di Riso Amaro.

Era il tempo del neorealismo, della vita da riprendersi dopo la guerra. Luisa e Gabriella cantavano le canzoni della tradizione popolare romanesca, quella fiumarola, un po' sboccata e un po' dolorosa, un po' da ridere e un po' una fitta nel cuore. Nel 1964 qualcuno le nota grazie a un 45 giri, un vecchio inno da osteria, La Società dei Magnaccioni, e noi je diamo e noi je famo, c'hai messo l'acqua e nun te pagamo. Diventano famose – concerti, applausi rose nei camerini - finché nel 1966 quel sodalizio, quella grande amicizia, si scioglie. Gabriella incide il suo primo album da solista in romanesco, parte in tour, raggiunge il Canada con i più grandi esponenti del folk italiano, arriva in classifica, entra nel giro del Bagaglino e conosce Giancarlo Riccio, un giovane diplomatico. Si sposano il 20 giugno del 1967, vanno ad abitare a Kinshasa, capitale dell'attuale Repubblica Democratica del Congo. Gabriella è certa che basti così, ma no che non basta. Il matrimonio naufraga nel 1970 e lei torna a casa. A Roma. Torna a omaggiare le sue radici con quella voce senza eguali.

Canta, canta con quel suo tono, che è metà un ruggito e metà una malinconia, spopola in Sudamerica, incontra il Piper e Patty Pravo, il beat e la musica moderna, si contamina, si reinventa. Arriva a Sanremo in coppia con Stevie Wonder, una cosa formidabile, assurda, incredibile e meravigliosa a pensarla oggi. Eppure va male, vengono eliminati al primo turno tanto che Gabriella dice nel 1969 addio per sempre all'Ariston, non le interessa più di tanto - ma che ce frega ma che de importa - c'è il cinema che la chiama, ci sono i teatri in voga, c'è da reinterpretare Ciccio Formaggio e prendersi la televisione chiedendo all'Italia intera "Dove sta Zazà?".

La nuova Mamma Roma

Sono gli anni Settanta e Ferri è la nuova Mamma Roma, incarna l'anima di una città: è imperiale e lasciva, regale e stracciona, improbabile e favolosa con quella voce che va dritta al cuore, tosta e sensuale, felina e graffiata, corposa e rauca, tutte le contraddizioni di una città in una sola artista. Canta Gabriella, canta quel gioiello che è Sempre e fa a gara di stornelli con Claudio Villa, canta e fa cabaret solo con il trucco vistoso sugli occhi, muovendo le mani, respirando.

L'amore della sua vita

Canta rileggendo Nino Taranto e la grande canzone napoletana, canta per Pietro Germi, canta per i Re Mida della commedia nostrana: Falqui e Pingitore, e poi in coppia con Pippo Franco o Enrico Montesano finché nel 1972, all'apice del successo, conosce a Caracas l'uomo della sua vita: Seva Borzak, presidente della divisione sudamericana della RCA, che sposa nello stesso anno, e da cui avrà l’unico figlio, Seva junior.

Gabriella zingara

Poi un periodo di stanca, la maledetta dimenticanza, il piccolo oblio. Qualche rara apparizione, qualche disco. Eppure, Gabriella-Zazà, nell'altalena dello spettacolo che oggi ti dà, domani ti toglie tutto, sembra finalmente ritagliarsi un ruolo con la bombetta in testa e la biacca da Pierrot sul volto, sembra una maga e un'incantatrice, una clown e una voce divina, una zingara e la Dea del Tevere. Una malinconica formidabile creatura fuori da ogni stereotipo.

La morte del padre

Sembra Roma e Roma la ama, incide, ritorna a fare tv piano piano, a piccole gocce, passi brevi e distanziati ma c'è un tarlo dietro quel sorriso bellissimo, amaro, mai troppo manifesto. Prima la morte del padre, l'amatissimo venditore di caramelle e per metafora e translazione la fine del dolce. Dicono che fu allora, nel 1975, che Gabriella disse basta. Dicono che allora tentò di lasciare questa terra.

Poi si riprese come fa l'araba fenice, l'uccello paradisiaco che rinasce dalla cenere, come i gabbiani che spiccano il volo dal fango rappreso, materico, del Tevere. Un volo terminato a Corchiano, in provincia di Viterbo, il 3 aprile 2004, all'età di 61 anni. Un volo da una finestra. Forse un mancamento, una vertigine, i familiari hanno sempre escluso l'ipotesi del suicidio. E perché mai Zazà avrebbe dovuto togliersi la vita? Madre di un figlio adorato, artista dal talento assoluto che proprio 24 ore dopo avrebbe dovuto partecipare a uno show televisivo, nessun messaggio lasciato ai posteri. Quel giorno di 20 anni fa anche Roma pianse. Smise gli abiti da regina dei Sette Colli, ritornò sul fiume per cantare un vecchio ritornello scolpito tra i marmi della città imperiale. Scolpito come le parole lasciate da Seva Borzak su una lapide al cimitero del Verano.

«Di notte i tuoi occhi

brillavano più forte delle stelle

di giorno il tuo amore

riscaldava più del sole»

Quanto ci manchi Gabrie'.

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