La pelle troppo chiara per la comunità black, troppo scura per l’America razzista. Eleanora Fagan nata a Filadelfia il 7 aprile del 1915 già da bambina è costretta a fare i conti con la diversità, la miseria, il dolore. La bambina che diventata una donna sceglie di chiamarsi Billie Holiday e che cresce quando negli Stati Uniti ci sono le leggi Crow, un’abiezione andata avanti dal 1877 al 1964. Leggi che prevedevano scuole diverse, ristoranti diversi, lavori diversi, bagni pubblici diversi per bianchi e neri. Nessun diritto, neppure di voto, neppure sedersi sul sedile di un autobus. E per la gente di colore solo processi sommari trasformati in pubblici spettacoli macabri.
Tra il 1889 e il 1940 negli Usa vennero giustiziate oltre 4mila persone: l'80% delle vittime era afroamericano. Uomini e donne linciati, spesso impiccati per reati neppure commessi. Lo conosceva bene il razzismo Billie. Ce l'aveva marchiato sulla pelle come una cicatrice. Figlia di una ragazzina e di un padre adolescente che abbandonò lei e la madre in fretta per andare a suonare il banjo, cresciuta tra strade, case desolate, e collegi solo perché aveva denunciato il tentato stupro di un vicino di casa. È ancora una adolescente quando arriva a New York. Per sbarcare il lunario finisce per prostituirsi anche lei, come la madre. La tenutaria del bordello di Harlem però le accorda un privilegio: ascoltare i dischi di Louis Armstrong e Bessie Smith in una stanzetta della casa. Viene arrestata durante un’irruzione della Polizia e finisce in riformatorio per quattro mesi. Quando esce decide che è venuto il tempo di cambiare il destino. Fa un’audizione come ballerina, fallisce ma rimane sul palco, prende il microfono e inizia a cantare. La ascolta per caso il produttore John Hammond che la segnala al cognato Benny Goodman, il re dello swing americano. È il 1933 quando Eleanore, detta Lady perché non accettava le mance che i clienti le mettevano tra i sensi e le cosce, diventa Billie Holiday, l’interprete – tra l’altro - di Strange Fruit, il più potente inno contro il razzismo.
Il testo recita:
"Gli alberi del sud danno uno strano frutto,
sangue sulle foglie e sangue sulle radici,
un corpo nero dondola nella brezza del sud,
strano frutto appeso agli alberi di pioppo".
Nel 1939 Billie Holiday inizia a cantare questo pezzo deflagrante, e lo fa fino alla fine, fino a che ebbe fiato nei polmoni nonostante le minacce, il carcere, gli insulti. Ma Billie aveva il dono, lo "shining", la luccicanza. Aveva la voce, una voce unica, una voce che fluttuava tra i toni, si interrompeva per creare stupore in chi ascoltava, aumentare il pathos, la drammatizzazione. Una voce allungata, leggermente nasale, da mezzosoprano, una voce come uno strumento, dilatata, mormorata, strascicata fino a far male. È così tanto Billie, così dolorosa la sua voce che a volte si fatica ad ascoltarla.
C'è dentro quel canto tutto il coraggio e la perdizione di una ragazza bella e selvaggia, la nera che Artie Shaw, la star del clarinetto e il direttore d’orchestra, scritturò in un'orchestra di bianchi scegliendo di commettere un'eresia. Lei costretta a entrare in teatro dagli ingressi laterali perché "black", quella che non poteva prendere l'ascensore negli alberghi ma salire sul montacarichi assieme al personale di servizio, quella che durante i tour non aveva mai una camera in hotel e dormiva in macchina, quella che ordinava due hamburger - uno lo teneva dentro la borsetta - perché non sapeva mai se nella città dove si sarebbe esibita avrebbe trovato una cucina disposta a dare da mangiare a una negra.
Billie la Lady, la voce più drammatica e inesorabile del jazz, diventa una star nonostante il fango, Billie alcolizzata, fatta di oppio ed eroina ma con una gardenia tra i capelli, la donna che trova nel sassofono di Lester "Prez" Young la prosecuzione della sua anima deragliata, Billie coraggiosa e sfortunata, Billie troppi amori e tre mariti violenti, circondata da manager magnaccia, sbattuta in carcere per un anno, interdetta a esibirsi in ogni club che servisse alcol, praticamente tutti i locali d'America. Billie amata da Louis Armstrong e dal pianista Mal Waldron, accanto a lei fino alla fine. Lei che cantò Gershwin come poche, con il suo timbro, un timbro da tempesta in Stormy Weather, il tono di ogni cuore lacerato in Lover Man e God Bless The Child, la signora del blues e del jazz come grammatica di libertà, di regole scardinate. Billy in crisi di astinenza, ormai alla fine per la cirrosi epatica, eppure ammanettata al letto del Metropolitan Hospital Center di New York, filmata dagli agenti dell'Fbi, piantonata, cancellata dalla lista dei pazienti critici per volontà del Bureau di Harry Anslinger, il capo della narcotici del governo americano che le diede la caccia non per la droga ma perché quella ragazza era troppo libera, troppo ribelle, troppo “nera” come testimonia anche un recente, durissimo documentario che suona come un atto d’accusa nei confronti del potere bianco. Morirà così, da sola, il 17 luglio del 1959. Sul conto in banca solo 70 centesimi di dollaro.
Una gardenia lasciata sfiorire. Aveva solo 44 anni e avrebbe potuto cantare per l’eternità, ma nell’eternità malgrado tutto è entrata dalla porta principiale con il passo di una Lady fiera e indomita. Il passo di una Regina che a dispetto di ogni pregiudizio ha cambiato per sempre la musica. Immortale Billie.