"Sono brutta", mi sono sempre ripetuta questa frase finché ho aperto gli occhi: come mi sono ripresa la vita
Un paio di occhiali da vista e una forte miopia possono condizionare la vita e farti sentire inadeguata. È successo a Cristiana Iannotta che racconta come ne è uscita fuori
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Un’altra giornata di quelle! Di quelle che faccio finta di niente mentre mi impegno a non farmi coinvolgere più di tanto. Di quelle che ripeto tra me e me, da almeno dieci ore, pure nel sonno agitato: “oggi sarà diverso”, “adesso so cosa fare”, “l’ho provato e riprovato”, “oggi, vinco io”. E invece, non ho mai vinto. E non ho mai saputo cosa fare, proprio come se ogni volta fosse sempre la prima. Un’altra bella giornata di quelle, appunto, piene di aspettative infrante che si ripetono a cadenza annuale, circa.
Acquisto degli occhiali da vista. Lo so, lo so. Ora avrai alzato la mano come a dire “ma va là… chissà cosa avevo immaginato!” Sì, hai ragione. La mia storia parla di semplici occhiali da vista e non di malattie o maltrattamenti gravi o di importanti disturbi alimentari. Ti stupiresti, quindi, di venire a conoscenza di quanto possa essere invalidante e sconvolgente per una bambina di sei anni (non che adesso sia molto cambiato) dover scegliere gli occhiali da vista che hanno quella dote innata, quella capacità naturale, di farla sentire brutta.
Una bambina che con gli occhiali da vista si sente inadeguata
Soprattutto a causa della forte miopia che le impedisce di vedersi allo specchio quando prova le varie montature colorate. Scegliere un accessorio così importante, che poi accessorio non è perché farà parte del suo essere per tutta la vita, e non riuscire a rendersi conto dell’effetto che potrà fare una volta indossato, la fa sentire inadeguata. Senza valore. Sola.
Il negozio è pieno di vetrine che mostrano montature bellissime, nei più svariati colori pastello. Il grande e lungo specchio a parete riflette l’immagine di una bambina in piedi, dai capelli tagliati corti perché così hanno deciso senza tener minimamente conto dei suoi desideri. Sono io, che cerco di avvicinarmi quanto più possibile al riflesso per riuscire almeno a capire come sarò dopo. Tutt’intorno voci e sguardi. Il nervosismo, quasi palpabile, che cresce tra i presenti e monta così come trascorre il tempo.
Minuti lunghissimi passati a scegliere i nuovi occhiali. Tondi. Grandi, forse troppo. Quadrati. Ovali. Troppo piccoli. Ore e ore a far scivolare le minuscole dita sulle montature, a lisciare quelle più belle e colorate, per poi veder scartare tutte le opzioni perché non adatte. Una ad una, via. La scelta si riduce, così, a solo due esemplari rimasti sul bancone che sembrano carini, devono esserlo per forza, osservati attraverso i vecchi occhiali da vista. Cerco di essere soddisfatta.
Non vedo l’ora di avere gli occhiali nuovi, sicuramente più alla moda di questi orribili che porto adesso. I nuovi, sì, che sono fantastici. Mi sto convincendo per non rimanere delusa. Lo faccio sempre. D’altronde per tutta la notte non ho fatto altro che pensare a questo momento. Il più bello. L’attesa. La trepidazione nel dire: “Non vedo l’ora”. E poi?
Arriva il gran giorno. Li prendo, li indosso e… mi guardo. In quello stesso negozio pieno di vetrine, riflessa in quello specchio che mi ha già vista. Sì, lui sì. Io no. Io, non vedo mai niente. Sono miope. Molto miope. Sono stata velocissima a metterli. Curiosa di ammirarmi.
Sono consapevole che tutti mi guardano soddisfatti. Io, invece, osservo un brutto rospo a cui non si vedono quasi gli occhi. Sono solo due puntini blu minuscoli, persi in un vasto mondo di vetro fatto a cerchi. “Ma sono proprio questi qui quelli che ho provato?” domando timida, con la voce incrinata. L’ottico annuisce. Mia madre anche. Non ci sono sorrisi aperti, mi sembra di essere circondata soltanto dall’impazienza. Li tolgo. Non vedo più niente. Li rimetto. Tolgo e metto per non so quanto tempo.
Mi sento mister Magoo ma non mi fa ridere
Forse spero in un incantesimo che trasformi il rospo in principessa, ma il concetto che le favole sono solo favole, appunto, l’ho ben chiaro fin da subito. Ancora una volta, tolgo. Poi li rimetto e no… proprio no. Sono brutta. Gli occhiali mi erano sembrati carini, ma se mi stanno così male allora sono io che sono brutta. Sono io che sono brutta. Credo di essermi sempre ripetuta questa frase, da quando ho sei anni. Queste lenti enormi che fuoriescono dal piccolo viso, inadatte; duemila cerchi concentrici che fanno sparire i miei occhi, eh sì che non li ho piccoli.
So che a scuola continueranno a chiamarmi quattrocchi, ma come fanno a vederli, i miei occhi, non riesco a capirlo. Mi sento Mister Magoo, avete presente, ma questo non mi fa ridere. Sono delusissima. Avvilita. Non è cambiato niente. Oggi, è peggio di ieri. Solo questo è sicuro. Niente.
Non mi rimane che camminare a testa bassa fino a casa. In apnea. Camminare senza respiro è un esercizio che mi è tornato utile quando, all’incirca trentenne, ho seguito lezioni di sub: presi atto che non consumavo aria pur riempendo i polmoni. Una fortuna in quell’ambito.
Magra consolazione, invece, per tutte le altre circostanze in cui sono rimasta senza aria per lungo tempo. Una volta a casa, tolgo scarpe e cappotto e mi rifugio in camera dei miei. Il comò con il grande specchio è proprio a sinistra della porta e, se la lascio aperta, posso sfruttare lo spazio minuscolo che si viene a creare. Così, protetta dalla porta dietro la mia schiena, mi schiaccio nell’angolo, mi poggio al comò e osservo il mio riflesso allo specchio. Non posso chiudere gli occhi, devo vedere. E vedo solo me stessa, brutta. E penso che così, brutta, mi vedranno anche gli altri.
L'isolamento come rimedio
Non sento. Non vedo. Mi isolo. “Tutto questo per un paio di occhiali sul naso?” È la frase più carina che mi viene rivolta. Sentire minimizzare ogni volta la mia sofferenza, anche se può sembrare piccola e ridicola agli occhi degli altri, mi fa solo reagire con il mettere un altro lucchetto. Rimango in silenzio. Il mio sguardo va solo e soltanto a quella bambina riflessa allo specchio, incastrata tra il comò e la porta, che piange a dirotto.
Mi guardo. E mi vedo. Indosso la montatura con le nuove lenti e gli occhi aperti non smettono di guardare. E di vedere. E non mi interessa se le lacrime sporcano le lenti e le appannano. Mi piace vedermi distorta. Liquida. Magari riesco anche a svanire. Magari. E poi? Poi esco dalla stanza, con la testa bassa incassata tra le spalle e lo sguardo fisso a terra. Un’abitudine che non mi abbandonerà per anni.
A diciotto anni ho potuto indossare le lenti a contatto. Rigide, prima. Semirigide, poi. Un dolore e un fastidio inaudito per i primi giorni, ma la voglia di abbandonarle non mi ha sfiorata nemmeno per un attimo. Gli occhiali non li volevo più. Quando finalmente sono riuscita ad abituarmi ho guardato in alto. Gli occhi spalancati sul mondo. Ho pianto. Ancora? Sì, ma di gioia. Io, fino a quel momento, non avevo idea che le foglie sugli alberi fossero così belle. Che, attraversate dalla luce, mostrassero venature di verde più scuro. I bordi, a volte, più chiari. Sembravano tanti merletti che facevano intravedere il blu del cielo.
Mi sono fidanzata con un bel ragazzo biondo
Un miracolo. Un regalo. Ho guardato davanti a me e ho visto cose che non avevo mai visto, proprio sotto casa mia perché, prima, il mio sguardo era rivolto solo ai miei piedi. In quel momento ho pensato che ce l’avevo fatta, che niente potesse più abbattermi. Che avevo vinto veramente la mia piccola grande battaglia. Mi sbagliavo. Mi sono fidanzata e la madre di lui odiava chi portava gli occhiali perché, secondo lei, non erano persone sane che meritavano di stare con chi, invece, sano lo era. Sempre secondo lei. Così ho accuratamente evitato di mettere gli occhiali in sua presenza per paura di essere trattata o giudicata male. Anche quando trascorrevo dei giorni ospite a casa loro al mare, indossavo le lenti a contatto fi no a quando lei andava a dormire.
Poi, il destino mi ha voluto mettere alla prova e il contenitore delle lenti mi è caduto nel lavandino del bagno. Tragedia. Non volevo scendere in spiaggia, avrei voluto risolvere prima il problema, ma nessuno si è preoccupato del mio disagio. In fondo, ormai, ero grande e quindi praticamente una stupida se ancora mi lagnavo per gli occhiali. La bambina dentro di me piangeva ancora a dirotto mentre cercavo di guardare dritto e non abbassare gli occhi. Una sorta di orgoglio positivo, direi.
Non dimenticherò mai lo sguardo di quella strega
Mai dimenticherò lo sguardo severo e accusatorio di quella strega malata di mente quando mi ha vista. Lo sguardo compassionevole e, allo stesso tempo, di monito riservato al figlio. Aveva lo schifo disegnato sul volto. Io, un rospo quattrocchi accanto al figlio, il suo bel vichingo biondo. Lui che, seppur con nessuna violenza fisica nei miei confronti, ha sempre tentato una sorta di supremazia mentale giocando sulla mia lampante mancanza di autostima. Certe persone hanno il sesto senso e individuano subito le loro prede.
A capire di aver sbagliato ci ho messo del tempo, ma poi a realizzare chi ero veramente e a riprendermi la mia vita è stato un tutt’uno. Lasciarlo è stata una liberazione. E devo ringraziare mio padre per questo. Il suo appoggio incondizionato, nonostante le sue lacrime per i miei atteggiamenti, mi hanno fatto aprire gli occhi. Anche se ho superato ostacoli ben più grandi della mia miopia, la strada è ancora lunga per riuscire ad accettare gli occhiali. Troppo profonda e personale la ferita.
Quando mi sono ripresa la mia vita
Poi, svariati anni dopo, è tornato Mister Magoo a salvarmi. Avevo la congiuntivite e non potevo mettere le lenti a contatto, ma c’era in programma l’uscita con il mio nuovo fidanzato e proprio non mi andava di rinunciare. Però, uscire con gli occhiali per strada… mai più. Così mi sono avvicinata al portone che, all’epoca, era a vetri. Pioveva. Ho tergiversato un po’, indecisa sul da farsi. Ho individuato più o meno la posizione della macchina, ho messo gli occhiali nella tasca del cappotto, aperto l’ombrello e sono uscita di corsa. Ad occhi aperti. Con il sorriso. Mi sono infilata in macchina e mentre chiudevo l’ombrello ancora fuori dallo sportello, mi sono scusata per il ritardo. “Se tutte le volte che piove mi scende dal cielo un regalo così, io rinuncio al sole. Dove devo firmare?” Quella frase mi ha gelata. Sì, alquanto romantica e gentile, è vero… ma non ho riconosciuto la voce. E non avrei mai potuto, perché mi sono praticamente tuffata nella macchina di uno sconosciuto. Sì, avete capito bene. Mister Magoo era tornato alla grande, ma quella volta ha fatto ridere. Anche me. Mi sono scusata, sono scesa dalla macchina come un fulmine e ho dovuto per forza di cose indossare gli occhiali, altrimenti chissà dove sarei andata a finire. Ancora rido. Quello che più mi dispiace è che non so dare un volto a quel ragazzo nella macchina. Chi l’ha visto?
La storia è la numero 3 del libro "A occhi aperti" di Cristiana Iannotta
14/07/2023