Terra, Roma e fantasia: l’Osteria Fernanda di Davide del Duca
SCAVARE
la terra dentro la metropoli, sotto l’asfalto di Trastevere. Sembra essere questa la missione di Davide Del Duca, apripista trentatreenne della bistronomia capitolina. Imponente come un giovane Cannavacciuolo ma decisamente più affabile, nella cornice del locale inaugurato a maggio dentro il popolare quartiere di Trastevere. Sono due i livelli aperti sulla strada, per un totale di 38 coperti, con la cucina a vista dai gradini della scala. Trasparenza totale e spazi misurati al centimetro per un’esperienza gastronomica che merita la deviazione, dentro il cuore quotidiano di Roma.
Contadinità, dicevamo, perché i natali di Davide sono a Castrocielo, provincia di Frosinone, in una famiglia di attualità operaia e di struggenti nostalgie rurali. “Mia nonna Anna Maria aveva una fattoria che esiste ancora: siamo cresciuti in mezzo alle mucche, preparando tutto in casa. Ricordo in particolare i canascioni ciociari ripieni di misticanze di campo e le lasagne. Un imprinting indelebile, per l’artigianalità e la lavorazione da zero. Tanto che tuttora faccio tutto da solo: dalla pasta ai dolci, non compro nulla; quando riesco preparo persino gli insaccati, perché la tecnica e le capacità non mi mancano. Ricordo che già a 10 anni stendevo la pasta e davo una mano con il lievito madre; poi siccome era una grande famiglia, giovedì davamo il via alla preparazione del grande pranzo della domenica”.
Le rezdore, è stato scritto, furono paraprofessioniste di una ristorazione embrionale. Formazione cui Davide ha fatto seguire la frequentazione dell’Alberghiero a Rieti e qualche stage nell’hôtellerie a 5 stelle di Roma, mentre assemblava una ricca biblioteca. Il primo ristorante importante è il Red Auditorium, con la consulenza di Angelo Troiani, dove si inserisce in una grande brigata, gestita con professionalità e in accelerazione. Poi diversi percorsi, tutti all’interno del perimetro capitolino, “più che altro per ragioni economiche”: il Vesta di Tivoli, Glass Hostaria di Cristina Bowerman, il Tordo Matto di Adriano Baldassarre a Zagarolo. “A cambiare la mia visione della cucina però è stato soprattutto Salvatore Tassa: io giro moltissimo in Italia, per mangiare dai colleghi e capire; lui mi ha stupito per lo stile unico e il rapporto simbiotico con la terra, l’intimità con la materia e con ingredienti come le radici, da cui estrae in prima persona gli addensanti”. Ed è così che Davide ogni mattina entra in Osteria con le buste cariche di verdura del mercato e soprattutto collabora con un ragazzo, Alessandro, che fa il coltivatore e il raccoglitore di “cose strane” per le campagne romane, dalle erbe spontanee alle radici, dalla rosa canina al muschio.
L’Osteria Fernanda, intitolata a un celebre sketch di Fabio Canino, apre i battenti nel 2006 con due soci in via Ettore Rolli. “Avevano in mente una cucina tradizionale, ma io sono partito subito con i miei piatti. Quindi una bistronomia romana, la prima forse di una lunga serie. Gli spazi di cucina però erano un po’ risicati per il numero di coperti, così di recente abbiamo deciso di cambiare location”. L’apertura, in società con Andrea Marini, che detiene le chiavi della cantina con Manuela Menegoni, è datata 1 maggio 2015: la festa dei lavoratori. Ed è un locale senza segreti, visto che gli unici spazi nascosti sono la plonge e gli spogliatoi. “Le celle non le abbiamo: lavoriamo sul giornaliero. La spesa è quotidiana, come la panificazione, i dolci e le paste fresche. Uso pochissimo sottovuoto, cottura che secondo me uccide le carni un’altra volta; gli preferisco passaggi veloci in padella o sulla braciera”. Il pesce è quello di una pescheria del litorale romano (ma è allo studio una collaborazione con Gianfranco Pascucci per il cefalo); l’olio è bio e sabino, da cultivar carboncella in purezza. Il risultato è sonoro: territorio, freschezza, rigore a un prezzo friendly più che mai.
I menu sono tre: Francesco (intitolato al capopartita Francesco Morisi), con 5 portate più appetizer e predessert a 38 euro; Luca (come Luca Carucci, sous-chef), che ne conta una in più a 45, e Davide, con le sue 7 corse a sorpresa a 59 euro. In abbinamento una carta dei vini da 200 etichette, forte sul fronte dello Champagne e della Mosella, con tanti naturali ma senza esclusivismi. Largo spazio anche alla birra, passione di Del Duca, che la definisce una bevanda “diretta”, democratica e leggibile da tutti.
Si comincia con gli appetizer: la sfoglia di peperoni con misticanza di campo, noci di Macadamia e rafano, dove l’ortaggio, arrostito in forno fino a leggera affumicatura e ridotto in cialda, forma un sandwich croccante e ben caramellato; il cannolo di pasta phyllo, ripieno di fegatini di pollo e crema di umeboshi, prima avvisaglia della passione per frattaglie e rigaglie; la spugna di cavolo nero con acciuga e pecorino, inno alla romanità, che significa sapori gagliardi ma anche vegetali, intensità e freschezza. Soprattutto la magnifica crocchetta di orecchie di maiale con cannella e scorza di limone, dove il calore scioglie il collagene con un esito piacevolmente fluido. Il fritto crunch, come romanità comanda.
Arriva quindi in tavola il pane alla frutta secca con burro salato, seguito da grissini, pane bianco e al pomodoro. Elegantissima la prima entrée: l’ostrica fine de claires servita con crema di cavolfiore, gelato di alghe, brodo di radici versato al tavolo, germogli di crescione e pomodoro. Un lavoro tutto in finezza, che dal mollusco estrae il nocciolato piuttosto che lo iodio.
In alternativa lo sgombro marinato in olio, zenzero e prezzemolo, sfilettato e ricomposto, poi arrostito in padella, lasciato riposare per fare penetrare il calore e scottato nuovamente. Ne risulta una testura impeccabile, per nulla asciutta o stoppacciosa. “Ma il piatto è nato dalle mele cotogne raccolte da un amico in Abruzzo. Ne ho tratto un gelato, prima di pensare all’abbinamento con lo sgombro nella forma di uno spaghetto di purea”. Completano il (quasi) monocromo la scaloppa di foie gras di anatra, agganciata alla frutta, l’acetosella per l’acidità, la salsa all’aceto di mele e la cipolla bruciata.
Memorabile il romolaccio selvatico, raccolto dal solito Alessandro, cotto sottovuoto per 5 ore senza liquidi, in modo da evitare una eccessiva concentrazione amara, servito con panko fritto, senape in foglie e in grani, lumache (da aggiustare nella cottura) per l’ironia sulla naturalità del prodotto. Un piatto dalle sembianze nordiche, che in bocca mostra un perfetto equilibrio fra amaro e piccante. “Un giorno è arrivato Alessandro con queste radici che non conoscevo; io stavo già provando le lumache e mi è piaciuto associare due elementi terragni. Sono stati necessari 15 giorni per trovare la quadra”.
Eccellenti i primi. Gli spaghetti con melanzane bruciate, battuta di gamberi rossi, coriandolo e pistacchi, per cominciare, che trasportano in Sicilia. Un piatto più netto, contrastato e avanguardista dei precedenti, con l’ortaggio arrostito sulla fiamma viva, la cui buccia viene recuperata e ridotta in polvere. A bilanciare l’amaro è la risottatura della pasta in acqua di pomodoro, che sostiene con l’acidità il morso, più la nota vegetale della frutta secca e l’aromaticità fresca dell’erba.
Oppure i cappelletti alla birra con foie gras, nocciole e funghi, piatto che ha strappato il premio Birra Moretti nel 2014. Anche qui un bilanciamento perfetto, ma fra grasso e amaro, con la farcia ottenuta a mo’ di crema inglese dall’uovo addensato alla birra (Porter e Scottish Stout) fino a 70 °C, poi abbattuta sotto forma di pastiglie, che si scioglie in cottura. La stessa bevanda è usata come trait-d’union per marinare il foie, esaltato dalla guarnizione.
Da aggiustare nella pasta un po’ gommosa e nelle componenti sgrassanti i Tortelli di grano arso, burro di Isigny, polline di carciofo e acciughe, dove il ripieno, sul modello dei tanti ravioli di olio, è il grasso stesso, di nuovo liquefatto in cottura; mentre il polline di carciofo è una polvere liofilizzata di classici carciofi alla romana, con i gambi fermentati in una soluzione di aceto insieme agli scarti per l’acidità.
La Triglia, aïoli al cervello, carciofi e liquirizia è sgrassata per via aromatica. “Mi sono rifatto a una tecnica di Salvatore Tassa, che cuore carni e pesci con le erbe essiccate. È vero che perdono la nota vegetale, ma concentrano l’aroma e propiziano il sentore affumicato”. Più la freschezza balsamica e amara della liquirizia e l’acidità del carciofo marinato in aceto, che ripuliscono dalla pastosità del condimento.
In alternativa c’è l’anatra, nocciola, rosa canina fermentata e cipollotto, con la bacca che bilancia per via acida la grassezza della frutta secca e asciuga la succulenza con i tannini. Classico il fondo, preparato in casa come quello di piccione.
Dopo il predessert di ganache di cioccolato bianco, olio di carboncella, passion fruit, pistacchio e ruchetta, arriva la spuma di aglio nero con gelato di birra, crumble di cioccolato e bucce di tuberi a mo’ di cialda croccante. Con le note di liquirizia e cacao estrapolate dalla birra ed esaltate dagli accostamenti.
Autrice: Alessandra Meldolesi
Tutte le fotografie sono di Andrea di Lorenzo
Osteria Fernanda
Via Crescenzo del Monte 18/24 – 00153 Roma
Tel. +39 06 5894333
Mail: osteriafernanda@libero.it
Il sito web dell' Osteria Fernanda