Meet in Cucina 2016

di Geporter Gourmet

Leggi più veloce

IDENTITÀ ABRUZZESI AL VIA:

Massimo Di Cintio, ideatore della manifestazione, ha introdotto la seconda edizione di Meet in Cucina, reunion teatina dei migliori cuochi della regione. Un nome che significa incontrarsi, ma anche aggiungere qualcosa nel dialetto locale: l’atout della sinergia e dello scambio professionale, decisivo per il trickle-down delle conoscenze.


 

Edizione nevicata, edizione fortunata, suggerisce la sala gremita; anche se Niko Romito è mancato per motivi di salute. Al posto del suo atteso intervento sul pane, ha fatto leggere un messaggio incentrato sul valore dell’onestà e della ricerca nell’ambito di una cucina inclusiva, rivolta ai più.


 

Ma la ristorazione regionale regge il palcoscenico anche in suo assenza. Cominciando da Arcangelo e Peppino Tinari, che hanno portato sul palco l’evolutionary revolution di Villa Maiella, sorta di Pescatore abruzzese, che autoproduce verdure e carni. Una quasi autarchia che significa conoscenza intima del prodotto e soprattutto rispetto per la sua sacralità: è confrontandosi con i cicli e l’integrità della materia che prendono forma le ricette. Cosicché l’artigianalità torna a essere centrale, come da Michel Bras, dove il giovane Arcangelo si è formato. Il suo intervento si è concentrato sulla tecnica della marinatura, attraverso la ricetta di un controfiletto marinato con caffè, cacao, ginepro e cumino montano, per evocare la cottura attraverso il tostato, senza sottovuoto ma con carta da forno e mortaio; per dressing una maionese di uovo barzotto allo zenzero; in finitura un petalo di begonia per l’acidità. Un piatto molto tecnico e pensato, in bilico fra Oriente e Occidente, piacevolissimo nel gioco delle molteplici freschezze e di scosse piccanti in sordina.

A seguire il coniglio di Cristian Di Tillio, ai profumi di porchetta con patata viola e il fegatino in forma di gelato all’amarena, come omaggio a Massimo Bottura. L’ottimo Nicola Fossaceca del Metrò ha invece messo a fuoco l’affumicatura. Quindi un raviolo di ricotta di pecora leggermente affumicata al legno di ciliegio e al ginepro, servito in un sauté di vongole alle erbe aromatiche e ricci di mare. Dove l’affilatura metallica del guazzetto penetra come una lama nella farcia grassa, lattica e rassicurante, con l’affumicato quale paradossale trait-d’union fra gli elementi. Mari e monti di Abruzzi finalmente plurali, dove la semplicità è pro-vocazione, cioè chiamata a comparire dell’essenza degli ingredienti.


 


 

Quindi Nadia Moscardi con le sue consistenze dell’orto, miscellanea vegetale sotto il segno della prossimità dentro i confini di un parco, sulla falsariga delle virtù teramane ma in chiave vegetariana. Matteo Iannaccone, generazione Heinz Beck, ha proposto tre visioni del crudo: marinato, puristico e caldo con la pasta. Fra di esse le cialde di manioca al sesamo con tartare di branzino, riduzione di Porto e burrata, sulla falsariga dell’evergreen di un altro suo maestro, Perbellini.


 


 

Gran finale (in due tempi) con Massimo Bottura, salito sul palco con il suo secondo abruzzese, Davide Di Fabio. Il consueto mattatore, capace di accendere il pubblico con lampi di cultura non solo gastronomica. Sul palco l’ironia di uno spaghetto al ragù, refuso corretto in forma di lasagna tricolore, anzi nel frammento della sua parte più ambita, la crosta bruciacchiata: quindi apparecchi a base di spaghetti al pomodoro, alle erbe e al Parmigiano sovrapposti, tirati, disidratati e fritti fino a ottenere cialde bruciacchiate, condite con un ragù di lingua e parti gelatinose e una spruzzata di besciamella al sifone. Una metafora in senso letterale, spiazzante per la prossimità fra due elementi, pur così remoti nella tassonomia del gourmet.


 

Poi un classico della Francescana, in lode dell’errore: Ops mi è caduta la crostatina, che recupera alla cucina modus operandi delle arti figurative, dove a partire da Duchamp l’inciampo è stato incluso nell’opera come sua componente vivificatrice.


 

E un Abruzzo visto da distanze lunari, come accade in certe opere informali: quello degli arrosticini bun, con il classico panino al vapore ripieno di un filologico arrosticino alla brace, più mostarda di mele campanine, ceci e zafferano fermentati, una crema di pomodoro tipo salsa barbecue e pickles di finocchio. Lo spirito pop, fra locale e globale, con un ricordo di Alighiero Boetti e del suo Tutto, inteso come pratica dell’aggiunta che dopo decenni di sottrazioni mira a suscitare un effetto mondo. Tre esempi vincenti di gestione della tradizione attraverso il viaggio, la contaminazione, il frammento.


 

Un testimone incandescente, raccolto da Marcello e Mattia Spadone della Bandiera. Hanno presentato un piatto quasi vegano, preparato con verdure di stagione del loro orto, cotte nel sale per 2 ore a 140 °C. Nel consueto stile contrappuntistico di Mattia, sono servite con una salsa di ghiande tostate e bollite, che spalma un profondissimo umami sulla consistenza di una demi-glace, foglie di verza passate al cannello, per un gusto affumicato su testura acquosa e cruda, purea di patata dolce, riduzione di barbabietola, semi di senape reidratati in aceto balsamico, per un effetto mucillagine, e bucce disidratate e fritte, che  trasformano lo scarto zero nel rito postmoderno di una svagata degustazione in stile nachos.


 


Massimo Bottura ordinato cavaliere

Autrice: Alessandra Meldolesi

20/01/2016
logo tiscali tv