Massimo Bottura e un pranzo intimo con tutti
Leggi più veloce
SCENDI
lungo la via Emilia costeggiando l'Appennino tosco-emiliano senza mai toccarlo, e quando ti fermi a Modena è come se già sentissi il profumo di un pranzo che non sarà facile dimenticare. Muovendoti per tempo sei riuscito a trovare un tavolo all'Osteria Francescana, hai viaggiato spinto da un sano scetticismo nei confronti del “miglior cuoco italiano di sempre”, e adesso sei in via Stella e stai entrando affamato in punta di piedi nel laboratorio per eccellenza della Nuova Cucina Italiana.
Hai letto decine di articoli e recensioni, ascoltato Massimo Bottura parlare con piglio rapito e convinto del suo lavoro un paio di volte in televisione, visto più foto di piatti suoi che di parenti tuoi, eppure basta l'atrio d'ingresso a lasciarti spiazzato. Ti trovi circondato da camerieri e arte contemporanea, ma le opere sono esposte in maniera così sincera e poco sottolineata da fartele sentire vicine, quasi tue. Non fai in tempo ad abituare gli occhi, che al tuo fianco compare il maître e ti accompagna al tavolo.
Affondi in una comoda poltroncina scura e fin da subito apprezzi la mise en place elegante e semplice, le luci dosate, l'atmosfera d'attenzione distesa. Studi la carta e sei tentato dal menu “Tradizione in evoluzione”, che sembra la raffinata sintesi di quanto hai sempre sentito raccontare su Bottura. Ci sono tutti i piatti più famosi di quel modenese bizzarro, dal croccantino di foie gras alle stagionature di Parmigiano Reggiano, dall'”Anguilla che sale il fiume Po” a “Ops, mi è caduta la crostata al limone” (che t'incuriosisce da quando l'hai visto la prima volta su una rivista perché temi possa rivelarsi più bello che buono).
Però poi vedi a fianco l'altro menu, “Sensazioni”, e ti rendi conto di esserne ancora più attratto, forse perché dei piatti elencati non ne conosci uno e intuisci siano gli ultimi arrivati. Il buon senso instraderebbe un neofita verso i classici, ma qualcosa ti suggerisce che vale la pena di osare, così decidi per la via sconosciuta. Sbocconcelli pane e grissini mentre un cameriere prende la tua ordinazione, e rimani un'altra volta sbigottito di fronte a una banale evidenza: alla faccia della cucina concettuale, già i lievitati sono di una bontà impensabile.
Quando arrivano gli amuse-bouche sei assorto nello spiare gli altri tavoli, dove tutti sembrano felici e divertiti. Assaggi quasi distrattamente il primo boccone, un macaron di coniglio alla cacciatora, e sentenzi debba essere la fame a fartelo sentire così buono. Ne vorresti trenta. Il secondo boccone viene presentato come “aulla in carpione”, e ti provoca un brivido lungo la schiena. Il ceviche, che già hai avuto modo di assaggiare in un ristorante peruviano, qui ti viene servito racchiuso dentro una finta pannocchia tostata, ed è tanto delicato quanto bello. Pensi che quelli sono gli stuzzichi e ti aspetta almeno una dozzina di piatti. Gran parte dello scetticismo di partenza ti abbandona, e il tuo sorriso si unisce a quello degli altri tavoli.
Si parte con gli antipasti veri e propri, e a dare il via è“Miseria e Nobiltà”, un'ostrica impanata nelle erbe accompagnata da un brodo di prosciutto e croste di parmigiano. Il nome del piatto ti si scioglie in bocca un poco per volta, perché senti la ricchezza dell'ostrica che si squaglia fino a fondersi con la pienezza del brodo, saporito e “povero” nel senso più positivo del termine, quello che in cucina è spesso sinonimo di grande tradizione.
Poi un cameriere ti piazza davanti una latta di caviale e sorride mentre ti dice un po' sornione “Una lenticchia meglio del caviale...”. Tu fai finta di capire e sorridi di rimando, ma quando infili in bocca il primo cucchiaio ti si apre un mondo: sembra caviale, invece sono lenticchie cotte nel brodo d'anguilla e colorate al nero di seppia, rifinite da una salsa di rapa rossa e da una crème fraîche utile a dare pienezza e acidità. Sei stordito, non ti aspettavi che una cucina così complessa e ragionata potesse centrare il bersaglio in modo così facile e diretto. Cerchi le parole adatte per descrivere quel che hai appena mangiato, ma invece di sofismi e panegirici sull'arte, sulla punta della lingua ti arriva un concetto infantile: buono da morire.
Il piatto dopo te lo porta direttamente il sous-chef di Bottura, Davide Di Fabio, perché ha molto a che fare con le sue radici abruzzesi, al punto di chiamarsi “Abruzzo”. Testina di maiale incapsulata nella trasparenza gialla di una gelatina acida infusa nello zafferano, a nascondere lo sgombro dell'Adriatico che sta sul fondo. Un mare-monti che sintetizza la natura bifida dell'Abruzzo con la precisione eccentrica del grande narratore.
Davide torna in cucina, e in sala arrivano uno dopo l'altro due primi piatti poco cerebrali e tanto succulenti. Il pugno iniziale è dato dagli spaghetti (cotti in un brodo di pomodoro rosso) con ricciola “bruciata” e passata di pomodori verdi affumicati; segue “Il Nord che vuole diventare Sud”, un risotto cotto nel latte di bufala affiancato da piccole cialde di polenta tostate in forno (così da ricordare il cornicione della pizza), a coprire pomodoro, alici e origano. Una pizza appena uscita dal forno. Una delle migliori che tu abbia mai mangiato, non hai dubbi.
Ti senti appagato e d'istinto abbasseresti la guardia, ma il prosieguo incalza, sotto forma di “Autumn in New York”, un riassunto dei mercati ortofrutticoli di Manhattan sminuzzato a dovere. Ribes, zucca, frutti rossi misti, zucchine... Innaffiato da un brodo dal sapore concentrato in cui ritrovi tartufi, funghi e altri elementi che parlano d'autunno.
Il piatto dopo è talmente articolato, e tu sei ormai così immerso in quanto ti sta capitando, da non cogliere tutti gli ingredienti e i passaggi che hanno portato a servirtelo così com'è. Si chiama “This little piggy went to the market”, e ogni maialino stilizzato che hai davanti rappresenta un continente: America del Sud, Africa, Asia, Sud America ed Europa. In quello europeo riconosci cotechino e mela, come a chiarire un rimando più a Modena che all'Europa tutta.
E infine arriva il piatto che ti manda al tappeto, quello con l'effetto di una seppur tardiva epifania. Hai letto la descrizione data da Bottura stesso ad Alessandra Meldolesi, “...la pernice aperta, disossata, farcita di bollito non bollito, rollata sul teppanyaki, cotta a bassa temperatura, sezionata e nappata con una salsa civet, montata non al burro ma con il cioccolato e la schiuma del caffè. A fianco ci sono un budino giapponese di tutto, chiamato chawanmushi, e una crosta di pane e tartufo nero pregiato per fare scarpetta”. Però a leggerla mica ti potevi immaginare fosse così avvolgente e perfetta, né avresti pensato di emozionarti tanto per l'opera di un cuoco. Sei anche felice di aver assaggiato il “bollito non bollito”, benché non in forma canonica, e trovi geniale l'autocitazione di un artigiano arrivato in vetta. Ti torna in mente un concetto legato alla critica letteraria che hai studiato all'università, ma non riesci a isolarlo del tutto prima che il tuo viaggio riprenda.
La “Caesar Salad in Bloom” con la sua freschezza dolce e acidula ti pulisce il palato fin quasi a riazzerarlo, prima che i due dessert ti accompagnino soavemente verso il termine della corsa. “La zucca fra Mantova e Ragusa” è un gioco costruito sul punto d'incontro fra un tortello di zucca e un cannolo siciliano, mentre “Yellow is Bello” è una torta mimosa di cui sono stati conservati solo gli aspetti migliori, e a presentarlo esce Taka (soprannome affettuoso di Kondo Takahiko), l'altro sous-chef di Bottura che insieme a Davide gli copre le spalle da anni.
Finisci con la piccola pasticceria, dove oltre a una ciliegia ricostruita che per qualche mistica ragione sa di ciliegia più di un frutto vero, trovi ad aspettarti la seconda metà dell'epifania che ti ha travolto mentre mangiavi la pernice. E' un cioccolatino, ma appena lo vedi riconosci sulla sua superficie le striature del “Camouflage”, forse il dolce più noto mai realizzato da Massimo Bottura.
Riaffiora il frammento di critica letteraria che prima avevi cercato di recuperare. L'intratestualità è il rapporto fra gli elementi interni a un testo, ovvero, più prosaicamente, l'autocitazione da parte di uno scrittore. Che non riprende propri passi per celebrarsi o per mancanza di fantasia, ma per due motivi parecchio “alti”: da una parte perché quando è arrivato finalmente a trovare un modo compiuto di esprimere il proprio pensiero più sentito e importante, sarebbe sciocco lasciarlo cadere come una frase qualsiasi; dall'altra perché ribadisce qual è il suo mondo interno, e invita il lettore a diventare suo complice grazie a un codice riconoscibile da loro soltanto.
Massimo Bottura è riuscito a rendere intratestuale la sua cucina, citandosi varie volte, e trovando a due piatti che l'hanno reso grande (il “bollito non bollito” e il “camouflage”) una nuova collocazione che renda loro merito permettendo a ogni cliente di goderne ancora, senza costringere il cuoco a ripetersi di continuo e correre il rischio di annoiarsi o diventare polveroso.
Bevi il caffè e paghi il conto senza leggere la cifra, poi ti alzi per andare via. Attraversi la porta e sei di nuovo in via Stella, anche se ora fai fatica a riconoscerla. Rispetto a tre ore fa hai piena la pancia ma soprattutto la testa, che sembra frastornata come dopo troppe ore al cinema. Piano piano ti ritrovi, e l'esperienza comincia a sedimentare. Non hai idea di come descrivere quel che ti è appena successo, né di cosa racconterai a chi, curioso, di chiederà un resoconto. Ti rimane solo una certezza: hai appena finito il miglior pranzo della tua vita.
Autore: Paolo Vizzari
Tutte le fotografie sono di Lido Vannucchi
Osteria Francescana
Via Stella 22 – 41121 Modena
Tel. +39 059 223912