Federico Zanasi: a slalom fra i cliché della cucina nordica
LO SCENARIO
non potrebbe essere più diverso: le cime innevate delle Alpi al posto della riga azzurra dell’Adriatico, verticalità e orizzontalità, pietre e velluto, la macchia bassa dei crepacci per i quali non si insinua lo iodio. Ha cercato un paesaggio completamente nuovo, Federico Zanasi, per aggirare gli automatismi di un magistero ingombrante. E lo ha trovato risalendo lo stradone che da Cervinia si inerpica verso l’infinito. A sinistra dell’asfalto dopo una rampa di scale, dietro la porta di un hotel di recentissima costruzione, al riparo di pareti in legno che trattengono il calore. Qui quattro anni fa ha poggiato valigie ricolme di concetti e savoir-faire, la cui cerniera è instancabilmente battuta avanti e indietro, liberando un refolo di primavera. Il paradigma Cedroni a 2000 metri sul livello della Madonnina: qualcosa di completamente nuovo.
Scriveva Cocteau che “un maestro è una carta moschicida. Intrappola un numero sempre maggiore di mosche. In poco tempo ne è così ricoperta che non la si intravede più. Bisogna essere uno scacciamosche”. E in questo caso la bracciata è stata diritta, precisa e vigorosa, fino all’emancipazione stilistica in alta quota. “Io però non sono marchigiano: sono nato a Castelfranco Emilia e ho iniziato a cucinare per ragioni banali. Mia madre era sempre fuori a lavorare e toccava a me far trovare il pasto pronto a mio fratello maggiore. Ricordo che mi lasciava la ‘mise-en-place’, per esempio la pentola di acqua salata e il ragù pronti per la finitura. Così pian piano mi sono appassionato. Erano tempi in cui tutti volevano fare l’informatico, mentre io ho scelto la strada del cuoco.
Finite le scuole sono iniziate le prime stagioni, a Milano Marittima e negli hotel di Modena. Poi mi sono fermato per diversi alla Lumira, dove ho fatto anche un po’ di sala. Qui Carlo Alberto Borsarini mi ha trasmesso i primi rudimenti dell’abbinamento col vino e le chiavi del territorio; proponeva ricette tradizionali buonissime, sempre preparate con materie prime eccellenti. L’impronta emiliana mi è rimasta, nel senso che amo la cucina golosa, la generosità del gusto, il Parmigiano.
In Spagna sono arrivato più per la movida che per l’avanguardia; ma mi sono imbattuto in un cuoco che era stato in stage a ElBulli, così al mio ritorno ho cercato il locale più blasonato della zona e sono finito da Amerigo con Alberto Bettini, un precursore del chilometro zero. Ricordo che litigavamo per un goccio di soia nel piatto. Ero capopartita ai secondi, ma lì praticamente lo chef non esiste: sono queste signore a fare la cucina, una specializzata nelle paste fresche, l’altra nelle carni arrosto.
Dopo un breve passaggio con Berton da Trussardi, sono rimasto folgorato da una foto di Cedroni su una rivista di cucina: mi piaceva il personaggio, con la bandana e il grembiule a peperoncini, quando tutti portavano la toque; poi volevo imparare a cucinare il pesce. Così dopo uno scambio fitto di mail ho varcato la soglia della Madonnina, ed è stato come quando il Carpi gioca a San Siro. Mi sono sentito veramente piccolo, perché Moreno è uno che in cucina si fa sentire tanto. Dopo un periodo di prova mi ha spedito al Clandestino e ricordo che quando ho assaggiato il primo menu, che deve essere approvato dallo staff a ogni cambio di carta, ho chiamato subito mio padre: ‘Non ho mai mangiato così bene in vita mia’. Perché c’erano questi picchi di acidità, i contrasti, l’agrodolce. Una cucina ipersperimentale per quei tempi, estremamente evoluta. Non avevamo spazi per stoccare quindi la linea veniva rifatta ogni giorno: una mole di lavoro che non avevo mai visto. E tanti piatti partivano da lì per entrare in carta a Senigallia, come la ricciola con i porri: era una specie di laboratorio creativo.
Finita la stagione ho passato l’inverno in un relais et château stellato, lo Chalet d’Adrien, dove ho imparato a districarmi in una brigata numerosa. Poi Moreno mi ha richiamato al Clandestino ed è iniziato un sodalizio lungo 10 anni, che mi ha visto seguire varie aperture e consulenze, da Milano alle Mauritius. La progressione è stata spontanea, con tante sgridate e altrettante soddisfazioni. Moreno aveva sempre l’ultima parola, ma i piatti li provavamo insieme. È stato il mio maestro in toto, anche nella precisione, perché ogni partita aveva il suo ricettario, la sua bilancia, il suo termometro. La sua è una cucina codificata come poche, dove nulla viene lasciato al caso.
A spingermi a lasciare sono state ragioni sentimentali: volevo avvicinarmi alla mia ragazza a Torino. Così mi sono trovato catapultato qui, in una cucina d’albergo, che non conoscevo affatto, dentro un territorio che mi era altrettanto ignoto. Ho iniziato a documentarmi sulle ricette tipiche e i prodotti stagionali; i problemi maggiori li ho avuti con i fornitori, che non volevano salire. Poi pian piano sono riuscito a mettere insieme la mia rete, procurandomi le verdure della valle, i formaggi dei casari, le carni della macelleria di Valtournenche, come capretti e vacche che pascolano in alta quota. Dopo il primo anno, dedicato a quel che già conoscevo, il pesce, sono diventati protagonisti del menu degustazione. È allora che sono nati i primi piatti, come la zuppa di cipolle, pensata per smaltire l’invenduto del pranzo, e i tagliolini fatti con gli asparagi bianchi, passati in forno a calore altissimo, sfibrati fino a ridursi in pasta e conditi con uovo e Parmigiano, a metà strada fra una Bismarck e una carbonara. Contemporaneamente ho chiesto di ampliare la cucina e creare un piccolo spazio per il ristorante gastronomico; ci sono ragazzi in brigata che mi seguono da allora: una grande soddisfazione.
Ho scoperto anche quanto è buono il burro, quello di montagna. Sono rimasto folgorato dal suo sapore pieno, con note di pascolo e di erba. Così ho iniziato a studiare come usarlo: affumicato, aromatizzato al caffè verde oppure ai gamberi di fiume. Sul fronte delle tecniche, mi sto distaccando dalla bassa temperatura, che in un albergo è una manna, ma al ristorante mi ha stufato. Lo stesso sottovuoto preferisco passarlo al vapore, a temperatura elevata. A pranzo abbiamo iniziato a proporre piatti familiari e conviviali, come il bollito, la coscia di agnello arrosto e il maiale al forno; e abbiamo voluto centrare le stesse temperature al cuore con la cottura poché nel brodo prebollente, come si faceva alla Madonnina in oliocottura”.
Il galletto segnavento, appollaiato sull’ampia terrazza con grandangolo sulle vette, non ha ceduto alle correnti del nord: nessun lichene, che non sarebbe di stagione; prodotti locali, ma senza rompersi la testa col foraging; zero fermentazioni e tanta fantasia. L’impronta cedroniana resta nitida sulla neve di Cervinia, nell’ironia e nei giochi semantici, ma anche nella propensione all’eleganza, nello sfumato gustativo e nell’utilizzo frequente delle salse. Quella di Zanasi è una cucina rigorosa e straordinariamente riflessiva, che parte spesso da ricette tradizionali o altri spunti familiari per sparigliarli con un irresistibile effetto sorpresa, vera firma del maestro.
In alternativa alla carta, più ecumenica e meno territoriale, c’è il menu degustazione, composto di 6 portate a 60 euro. Comincia con gli appetizer: il panino al vapore con lardo di Arnad, le frittelle di topinambur affumicato, la cotenna soffiata di maiale con aceto ai fiori di sambuco e alga kombu al posto del sale. Pochi bocconi propedeutici al primo benvenuto vero, tanto atteso da chi arriva dal freddo delle piste. È la classica liquidità calda della zuppa di cipolle, ripensata come un’infusione di “tagliatelle” di zuppa di cipolle nel brodo intenso di croste di Parmigiano. In fondo una ribollita 2.0, ispirata ai dettami dello scarto zero in ogni sua componente. Gli avanzi della zuppa del pranzo vengono lasciati ridurre e asciugare fino a ottenere una sfoglia, addensata dalla farina bruciata e dagli zuccheri caramellati dei bulbi. Reidratata al tavolo con il brodo caldo, anch’esso di recupero, sviluppa un gusto dinamico, dove il territorio viene cannibalizzato dall’umami padano.
Rape e trippa è un trompe-l’oeil nato dallo studio sulla radice: “Il suo sapore cambia moltissimo con la cottura, perdendo il vegetale per sviluppare un gusto dolce/amaro. Noi l’abbiamo passata sottovuoto nel forno a vapore, poi spezzettata grossolanamente e lasciata nell’essiccatore per una notte a 55 °C, fino a ottenere una consistenza gommosa che ricorda la trippa vera. Ne frulliamo una parte per ottenere una polvere amarissima; il resto si reidrata sul fuoco nel brodo di rape, lessate per 12 ore con pepe abbondante; insieme alla trippa, cotta in bianco con sedano, carota e cipolla. Più una spolverata di prezzemolo e limone in finitura, per ripulire”. Uno studio sulle testure giocato sulla rassomiglianza dissimile fra ingredienti viscerali, il cui scarto vivacizza la degustazione.
Le animelle con fegatino di piccione, bottarga di tonno e fiori di crisantemo prendono spunto da un’altra ricetta familiare: la fricassea, di cui mutuano l’intingolo di brodo e tuorlo, in questo caso marinato. Quindi un’animella cotta al burro con aglio e timo e il fegatino di piccione, scelto per la sua ferrosità, ripassato nel suo fondo e deglassato al vino; più la bottarga per la sapidità e i petali di crisantemo quale chiave del piatto per la componente floreale, tannica e amara, sul modello del tè giapponese. Una manciata di ingredienti per una geometria di amari che si elidono, spostando il baricentro gustativo sul fondo dolce della frattaglia. Con un ricordo del rognone alle rose di Paolo Lopriore nella congiunzione di asperità e profumo.
La verza con olandese di grasso di capretto segue il modello cedroniano dello scambio fra elementi (vedi la costoletta di rombo, presentata come se fosse vitello), in questo caso vegetali e animali. Il cuore dell’ortaggio viene cotto sottovuoto per 4 ore a 80 °C, con la camomilla per addolcire e profumare, poi rosolato in cerca di una reazione di Maillard che propizi il mascheramento in pièce di carne e spinga l’amaro. Dei capretti viene invece fatto fondere il grasso delle pance, sempre in eccesso, insieme alle rifilature e alla crépinette, come si farebbe con le oche: è utilizzato per montare un’olandese acidulata con l’aceto, che smorza la nota animale. Completano il piatto, dove la carne si fa salsa per il suo simulacro, il tartufo bianco, spesso associato alle crucifere, e una segatura di mandorle bruciate, che spinge ulteriormente la sensazione di rosolatura.
I plin ripieni di coda di bue, con un ricordo di Emilia, sono conditi con uova di trota, per la sapidità e la consistenza ludica, burro e brunoise di gamberi di fiume. Mentre il maiale è cotto poché nel brodo prebollente, sul lato della stufa, in modo che il morso resti tenace e l’interno rosato; poi affumicato leggermente sul barbecue per eliminare il sentore di bollito senza procedere alla rosolatura, che viene però evocata dalla guarnizione di semi di zucca e crumble di lardo, macinato e croccantato nel suo stesso grasso. Completano il piatto la purea di zucca mantovana, l’olio di zucca e i raponzoli, i cui tannini sono prodigiosamente spinti dal burro di caffè verde, con un piacevolissimo effetto di pulizia in bocca. Un piatto perfetto.
Il capretto valdostano è marinato in aromi e fieno, poi cotto sottovuoto ma al vapore, disossato, messo in forma fra due placche e glassato. Viene servito con un jus acidulato, salsa di latte fermentato, mirtilli essiccati, un vino Torrette speziato tipo vin brulé e aceto alle bacche di sambuco. Un monogusto acido, o quasi, bene accetto a fine pasto.
Al predessert di gelato di burro di brossa, prodotto tipico ottenuto da siero e aceto, servito con gaufre, marmellata di rabarbaro, oxalys e olio di pepe di Timut, tutto acidità e grassezza, segue il cremoso di cioccolato bianco con passion fruit, pompelmo rosa e capperi canditi, a metà strada fra il Mediterraneo e i tropici. È il lieto fine su una cucina sicura, da valorizzare con piccole migliorie al locale e alla carta dei vini, attualmente un po’ anonima.
Autrice: Alessandra Meldolesi
Le fotografie dei piatti sono di Bob Noto
Ristorante Snowflake c/o Hotel Principe Delle Nevi
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