David Chang, il ragazzo di campagna che ha conquistato New York
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SOLTANTO
il volo di un gabbiano sopra la tua testa o l'aggressione tagliente del vento oceanico possono ricordarti che New York è un'isola, perché la Mela richiama talmente il concetto di metropoli da farti sparire ogni ricordo di natura e terra spoglia non appena le atterri in grembo. Sogni, tradizioni, grattacieli e culture lontane si impastano con acciaio e asfalto per dare vita alla città più veloce del mondo, l'unica che 'non dorme mai', animata da persone abituate a correre senza pause nel tentativo di produrre e anticipare i tempi.
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Complicata, immensa, insondabile, al punto che sembrerebbe impossibile tracciare una linea della sua cucina caratteristica, se non elencando una per una le varie sfumature etniche che si possono incontrare lungo le strade di Manhattan. Eppure, contro ogni logica, esiste un uomo che ha saputo intrecciare tutti questi fili per dare vita a un'unica multiforme matassa gastronomica. Si chiama David Chang, a dispetto del cognome asiatico che tradisce le radici coreane è nato a Vienna (un piccolo comune al confine tra Virginia e Maryland che della capitale austriaca ha solo il nome), e con i suoi piatti racconta la frenetica essenza newyorchese meglio di qualsiasi guida o reportage.
Photo Gabriele Stabile
Dopo un'adolescenza passata giocando a golf agonisticamente per assecondare le ambizioni paterne, David si laurea in teologia al Trinity College di Hartford, e sta lavorando in alcuni uffici finanziari nell'attesa di capire cosa fare della propria vita quando durante un periodo a Londra rimane affascinato dalla gestualità a tratti rituale d'un impastatore di noodles. Il padre, che in passato è stato cuoco e sa quanto stressante possa essere il mestiere, lo dissuade dal mettersi ai fornelli, così David ripiega sul Giappone dove si trasferisce a insegnare inglese.
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Diviene amico del gestore di un ramen shop da cui si fa spiegare tecniche e trucchi delle tagliatelle in brodo nipponiche, ma inizia a sentire il bisogno di studiare le nozioni base della cucina, dal momento che gli si sta facendo via via più chiaro che per realizzarsi deve diventare un cuoco. Il padre gli dà del matto, ma poi si lascia convincere e lo spedisce a studiare al French Culinary Institute di New York, da cui David esce diplomato nel 2000, giusto in tempo per cominciare come comis al Mercer Kitchen, uno dei ristoranti sotto l’egida del celebre Jean-Georges Vongerichten.
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Il passo dopo è il Craft, locale aperto nel 2001 da Tom Colicchio (oggi star chef, all’epoca già grande cuoco), che David rispetta così tanto da accettare l’incarico di centralinista pur di venire assunto. Risponde al telefono per circa un anno, poi passa una seconda volta in Giappone prima di tornare in Virginia per assistere la madre malata. Durante quel periodo ragiona sull’apertura di un locale suo, e una volta trovati i finanziamenti grazie al padre e a un gruppo di amici, il primo Noodle-bar comincia a prendere forma. Se il palcoscenico designato è la Grande Mela, come logo del ristorante viene scelta invece una piccola pesca che rimanda al nome: Momofuku, ovvero “pesca fortunata”.
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E la fortuna non tarda ad arrivare, sotto forma di un piatto tanto semplice quanto squisito che comincia a fare il giro del mondo tramite passaparola e blog, rendendo quasi da subito David un’icona del boom gastronomico di Manhattan benché al momento il suo ristorante sia poco più d’un bar riadattato. Si tratta del “Pork Bun”, un bao (il morbido panino cinese cotto al vapore) con pancia di maiale marinata un giorno e cotta due ore e mezza a circa 140 gradi. Migliaia di clienti arrivano dall’America come dal resto del mondo per mangiare il panino al vapore di David, e lui coglie immediatamente la palla al balzo per passare al capitolo successivo.
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Alla fine dell’agosto 2006 a Oslo viene ritrovato “L’urlo” di Edvard Munch, disperso da due anni, ma l’attenzione degli States è in gran parte dirottata verso un altro avvenimento dello stesso giorno: David Chang apre il suo secondo locale a Manhattan, il Momofuku Ssäm Bar, dove serve per lo più cibo arrotolato (nello stile di wrap e tortillas) senza rispettare i consueti orari d’apertura, ma preferendo invece chiudere a notte fonda.
Photo Gabriele Stabile
La risposta di pubblico e critica è di nuovo eccezionale, tanto che per David comincia un periodo, non ancora concluso, in cui si susseguono aperture di vari locali in diverse città (soprattutto New York, ma anche Washington, Toronto, Sidney…): molti milk-bar/pasticcerie, alcuni bistrot e rivenditori di easy-food sul modello nel Noodle-bar originale, culminando con l’inaugurazione nel 2008 di Momofuku Ko, ristorante di punta del gruppo nonché unico avamposto d’alta cucina.
Photo Gabriele Stabile
Quando apre Ko, David sa quanto rischia di farsi male a causa della sovraesposizione mediatica di cui già gode, ma non se ne preoccupa e imposta un locale senza precedenti, per molti versi riassumibile nella versione 2.0 dell’Atelier coniato da Joel Robuchon. Pochissimi posti a sedere (da 12 a 20, a seconda del periodo) tutti posizionati su sgabelli che circondano l’isola centrale in cui risiede la cucina. Nell’arco degli anni trova il supporto di un altro cuoco che dal 2014 diventerà addirittura executive chef, Sean Gray, e con lui mette a punto una linea di cucina in grado di sintetizzare le mille influenze che la rendono massimo esempio di “newyorchesità”.
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Ogni piatto racchiude almeno tre continenti, filtrati da mano tecnica e internazionale per un risultato che ricorda tutto ma non assomiglia a niente. Una canocchia nordamericana può allora legarsi a uno dei simboli dell’Europa mediterranea, il basilico, e trovare note dolci e acide nell’ananas sudamericano che rende l’insieme tanto esotico quanto elegante senza incidere a scapito del frutto di mare scelto come protagonista.
Photo Chad McQuay
Il foie gras fa parte della tavolozza d’ingredienti possibili, ma il laicismo con cui viene lavorato è ben lontano dalla rigidità quasi sacrale alla quale siamo abituati fra Italia e Francia, al punto che David e Sean arrivano a gelarlo e servirlo grattugiato a guisa di parmigiano, per completare un piatto fulminante in cui gli altri protagonisti sono lychee, gelatina di Riesling e pinoli.
Photo Gabriele Stabile
Non mancano portate d’estrazione geografica più chiara, come il sabazushi (ovvero un sushi di sgombro) con dashi ponzu acidulo e wasabi, ma non appena si cede alla tentazione di azzardare che la scuola giapponese abbia un ruolo primario nella cucina di David, ci si trova subito davanti dei ravioli (la cui pasta sembra tirata da una sfoglina di Modena o dintorni) ripieni di formaggio cheddar stagionato e accompagnati da broccoli saltati.
Photo Chad McQuay
Grazie ai successi del Ko e i numeri stordenti messi assieme dagli altri locali meno pretenziosi, oggi David è uno dei cuochi più citati al mondo, appare spesso in programmi televisivi americani e non, e anche grazie all’autorevolezza raggiunta dalla rivista da lui fondata (“Lucky Peach”, ennesimo richiamo al suo portafortuna), è stato perfino inserito nella classifica delle 100 persone più influenti al mondo stilata ogni anno dalla rivista Time.
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A sua volta complicato, immenso, insondabile, David parla volentieri dei progetti futuri dando l’impressione che l’apice appena raggiunto non sia che un nuovo inizio di cui pare illogico prevedere l’epilogo, e a chi si dimostra scettico o comunque cauto nel commentare i suoi piani a venire, risponde raccontando la sua storia. Quella della piccola pesca di provincia che un morso alla volta si è divorata la Grande Mela.
Autore: Paolo Vizzari
La fotografia di copertina è di Gabriele Stabile
Momofuku Ko
8 Extra Place - New York, NY 10003