Colpo d’ala alle Calandre: Massimiliano Alajmo e la rivoluzione della grazia
ITALIANITÀ,
spirito e materia, tecnica e naïveté, naturalezza e studio maniacale del prodotto. Non è facile definire la cucina di Massimiliano Alajmo, cuoco ai vertici della scena italiana (e non solo) da almeno tre lustri, capace di spostare ogni anno l’asticella di una perfezione tutta sua. Non è una cucina d’avanguardia o post-moderna, per quanto lasci spazio alla ricerca come poche; non è neppure molecolare, sebbene utilizzi a tratti la medesima strumentazione, e non è sicuramente primitivista, a dispetto di un’irresistibile naturalezza. Di certo è la cucina di un solista, nella visione e nelle pratiche, ospitata in una cattedrale sulla strada regionale 11, che ha acquisito man mano i tratti della grande maison.
Poco più che quarantenne, Alajmo è un nativo culinario, cresciuto in mezzo alle pentole di mamma Rita, la prima a conquistare un macaron al ristorante di famiglia. E a quella cucina madre è legato da un cordone ombelicale indissolubile, cui i variopinti gomitoli di lana a centrotavola sembrano alludere con discrezione. Piatti della tradizione italiana, quindi, spesso distribuiti in filoni che non smette di scavare, si tratti della carne cruda, scodellata dalle leggendarie tartare di papà Erminio, dei cappuccini, delle paste fredde o dei ravioli ripiegati. Ma il richiamo delle origini, evidenziato dal leitmotiv del latte e dell’uovo, passa anche per il ricorrente spirito ludico, con presentazioni che non possono non strappare un sorriso. Per esempio nell’articolata serie del Gioccolato, con il suo invito esplicito alla regressione.
Il controcanto è lo studio di prodotti e cotture: raramente nella ristorazione italiana l’attenzione sul dettaglio è stata così maniacale, all’interno di piatti la cui ispirazione, come già accennato, è di solito familiare e perfino incline all’understatement. Passato per esperienze formative al fianco di Alfredo Chiocchetti, Marc Veyrat e Michel Guérard, Alajmo ha sviluppato tecniche tutte sue, che attualmente culminano nello studio dell’acqua quale paradossale esaltatore del gusto, sul modello omeopatico della diluizione per il potenziamento; genera salse e apparecchi dal gusto limpido e leggero, purissimo e perfettamente centrato, per sottrazione e senza il ricorso a concentrazioni muscolari.
Oppure nell’esplorazione di uno strumento di cottura: il forno a pressione, che innalzando il punto di ebollizione dei liquidi contenuti negli alimenti ne altera le strutture e così origina testure originalissime, succulente e francamente spiazzanti. Il modo per sovvertire dall’interno i nostri classici, estremizzando, deformando, cremificando fino all’inverosimile senza alterare in alcun modo la materia; agendo anzi nuovamente sull’acqua, sostanza filosofale di Alajmo e strumento di un’empatia universale, i cui simbolismi si possono solo pudicamente intuire. “Sono cattolico praticante e sento che nella materia ci sono verità nascoste da esplorare; ma è la cucina a dover parlare, anche per gradi, altrimenti come cuoco ho fallito”. Lo spessore è insondabile, la tecnica spiritualizzata, senza mai fuoriuscire dallo specifico culinario.
Il risultato è pura grazia. Alajmo la chiama “fluidità” e sta per abbandono del cuoco alla materia, dai cui aromi il piatto promana: la lavanda contenuta nel cappero di un superbo spaghettone alla cipolla come il caffè nascosto in una determinata varietà sempre di cappero, che ha ispirato un risotto entrato nella storia come primo esempio di verticalizzazione. Il gusto in tutto questo è immediato e universale, materico e rotondo, lontano da qualsiasi forma di provocazione. Aggraziato nell’accezione di Von Kleist, quando scrive a proposito del teatro delle marionette: “Noi vediamo come, a misura che nel mondo organico la riflessione si ottenebra e si indebolisce, la grazia vi emerga più radiosa e dominante. – Ma, come l’intersezione di due linee da un lato di un punto, dopo aver attraversato l’infinito, si ritrova improvvisamente dall’altro lato, o come l’immagine dello specchio concavo, dopo essersi allontanata nell’infinito, riappare all’improvviso vicinissima a noi, così anche la grazia si ripresenta, quando la conoscenza è passata, per così dire, attraverso un infinito; di maniera che si manifesta, nella sua forma più pura, in quel corpo umano che non ha affatto coscienza o l’ha infinita”. Per esempio nel bambino e nel saggio, protagonisti di un Gioccolato composto di ciuccio e pipa, che si saldano nella figura di Alajmo, cuoco bambino che ritrova la grazia attraverso l’infinito della conoscenza.
I menu 2016 sono straordinari, per maturità e per coerenza: il Classico (11 portate a 225 euro, dall’omaggio ad Aimo e Nadia di Al-Aimo fino alla clamorosa Mozzarella di mandorle, in realtà recentissima), Max e Raf (sempre 11 portate a 225 euro), tutti italianamente incardinati attorno a clamorosi primi piatti. In abbinamento una carta dei vini da 1500 etichette, che privilegia da tempi non sospetti i naturali, amministrata da Raffaele Alajmo (che però non officia più in sala) con il sommelier Matteo Bernardi. A battere il diapason della memoria comincia il tris degli appetizer: il baccalà con chips di riso, effetto mantecato, dove la sensazione lattica è ricavata dal cereale; il cuscinetto di pistacchi e basilico, omaggio alla Sicilia, patria degli Alajmo; la tartelletta con ragù di guancia e besciamella, per l’emozione di un pranzo della domenica.
Carote e porri all’arancia con gelato alla curcuma
Poi, in antipasto, Asparagi e moeche fritte, dove i crostacei e la verdura sono cotti nello stesso modo, avvolti in una pastella fluida e cosparsi di mais semisoffiato, per un crunch arioso che sa di polenta, prima del tuffo nell’extravergine siciliano. A lasciare a bocca aperta però è la salsa di curcuma fresca, lavorata in una crema coloratissima e diluita con una “maionese” all’acqua, per un esito al tempo stesso ricco e leggero, avvolgente ma non prevaricante.
Oppure Nudo e crudo, passerella di crudité che apre e chiude sull’ironia: prima il calamaro freddissimo di pasta alla barbabietola ripieno di calamaro crudo, crema di litchi e dentice; poi un velo di carne cruda farcita con pane biscotto, crema di crostacei, caviale e foglia ostrica; a seguire il gambero rosso impanato ma non cucinato con salsa di pistacchi al caffè e misticanza; infine lo spaghettino di soia con miso, anguilla affumicata, pasta di curry e ananas, calamaro in osmosi. Il tutto servito senza piatto, su un foglio trasparente, perché togliere talvolta è aggiungere, spogliare rivestire. “L’approccio cambia radicalmente, perché senti che il cibo è stato privato di qualcosa e nel contempo esercita un’evocazione più forte”.
E ancora l’irresistibile Scarpetta di cipolla, servita su un apposito supporto in vetro confezionato dal mastro vetraio Lunardon. “È nata perché un’amica, Faith Willinger, mi esortava sempre a lavorare sul tema”. All’interno fiori di borragine al vapore, foglie di borragine, agretti, asparagi lavorati a crudo con balsamico bianco alla rosa, mimosa d’uovo per il richiamo alla memoria, salsa di cipolla rossa e sorbetto di senape all’estragone, dalla fallace sensazione lattica; per laccio uno spaghetto Benedetto Cavalieri cotto nel forno a pressione con estrazione di cipolla, più plastico per la reazione degli amidi e più profumato grazie alla maggiore solubilizzazione.
La Tagliatella primavera omaggia un cavallo di battaglia di Sirio Maccioni: viene impastata con farina di piselli secchi passata a diverse temperature e acqua calda, poi trafilata; per condimento una salsa di pistacchi all’acqua, ortaggi freschi di stagione e qualche traccia leggera di spezie. Monocromatica e metonimica nello slittamento del sugo in pasta: un’esplosione di clorofilla.
Dotto al mais e curry nero con salsa rosa di anguilla e bottarga
Fra i secondi ancora understatement: quello del pollo arrostito nel solito forno a pressione, straordinariamente fondente grazie alla fusione del collagene, tanto che le ossa si sfilano nonostante sia un volatile ruspante. Viene servito con papillote commestibili di ostia del mandorlato, una patata solo apparentemente fritta e una concia di pomodoro leggermente piccante per il richiamo alla cucina americana. Va mangiato con le dita (tranne il petto), in modo da portare e riportare al naso i profumi erbacei della fase di cottura, con un’aromatizzazione in crescendo; e anche per favorire una fruizione primordiale e infantile, secondo lo stile della casa.
Tanta ironia nel predessert Pipa libre, servito nel contenitore in vetro del Tiramisù da tirare letteralmente su. In questo caso contiene estrazione di ananas in pressione, ananas e vaniglia, passion fruit e cocco lavorato all’acqua.
Segue un dessert capolavoro, fra i più buoni di sempre e di ovunque: la Mozzarella di mandorle, ispirata alla tradizione del mandorlato di Cologna Veneta: quindi il guscio nella forma aurorale di un uovo, “neutro ma con forza, senza prevaricazioni sul contenuto”, preparato con miele, zucchero e albume, dalla testura vitrea impressionante, e una fluidità di mandorle, zucchero e acqua, quale esaltatore della frutta secca, che ricrea in absentia la sensazione lattico tattile, trait-d’union con la mozzarella. Per potenziare il trompe-l’oeil sopraggiungono in finitura olive, capperi e peperoncino canditi, olio, sale e pepe. Con il gomitolo della cucina che lega tutt’Italia, dal Veneto alla Campania, passando per una nostalgia di Sicilia.
Autrice: Alessandra Meldolesi
Tutte le fotografie sono di Lido Vannucchi
Ristorante Le Calandre
Via Liguria 1- 35030 Sarmeola di Rubano (PD)
Tel. +39 049 630303
Mail: info@alajmo.it