Balkan Baroque: vita e cucina di Entiana Osmenzeza
IRRUENTE,
carismatica, sanguigna; la voce che squilla e il fazzoletto da contadina allacciato sui capelli biondi, sopra il luccichio degli occhi grigi che dardeggiano qua e là. Non passa inosservata, Entiana Osmenzeza, giovane cuoca che da cinque anni, dopo una lunga gavetta, ha posato i suoi bagagli inquieti nei ristoranti buoni di Firenze. Al ritmo struggente di una musica balcanica, con un passo di danza strappato a Kusturica, che ci precipita nel mulinello dell’avventura. Velocità ed energia di un romanzo balcanico.
La domanda è: da dove? La risposta: Albania. Non una metropoli immaginaria, ma Berat, villaggio patrimonio dell’Unesco, “la nostra Firenze”, racconta Entiana. “A quei tempi il mio era un paese poverissimo, dove a parte olio e zucchero da ritirare col coupon, esisteva solo il mercato nero. I contadini avevano le loro terre e prima di conferire i prodotti alle cooperative, rosicchiavano qualcosa per l’autoconsumo e il baratto. La mia famiglia era mista: nonna kosovara, zia cattolica, ma la religione era proibita. Facevamo il pane in casa, uccidevamo i polli in bagno e tenevamo i conigli in giardino. Una situazione molto semplice, genuina e anche ingenua, dove il contatto con il cibo era continuo: in casa aiutavo a raccogliere frutta e verdura, ma anche a scuola ci spedivano nei campi di cotone e di mais”.
La cucina aveva il sapore dei pickles fermentati nelle anfore interrate e dell’affumicatura, che fossero anguille e carpe pescate in qualche lago o brani di selvaggina da essiccare per l’inverno, come vuole una direttrice che sale fino in Scandinavia. “In tutto questo a fare la cuoca non ci pensavo proprio. La scuola era severissima ed estremamente competitiva, tanto che mi immaginavo giornalista o avvocato; finché con la caduta del regime non è dilagata la povertà, in un clima da guerra civile dove era d’obbligo barricarsi in casa per sopravvivere”. Il deus ex machina è zia Meli, che a 16 anni le compra un passaporto slavo falso e l’aiuta a passare il confine, fino a Otranto. Da lì, come in un racconto picaresco, il treno per Torino e l’inizio dell’avventura della sopravvivenza, con le nocche che bussano alla porta di una pizzeria e il primo lavoretto da lavapiatti e factotum, dormendo nelle cantine e lavandosi nei bagni pubblici.
Irregolare, minorenne: troppo per i carabinieri, che la spediscono in una comunità alloggio. “Potendo lavorare, a questo punto ho scelto l’Alberghiero, che mi consentiva anche di studiare”. Da lì il primo stage a Monte Carlo, al Metropole, e la folgorazione per l’alta cucina, dardeggiata dall’arco di Vittorio Beltramelli, allievo di Gualtiero Marchesi. La strada è ormai segnata: passa per il Lotti di Parigi, i Balzi Rossi di Ventimiglia, il Louis XV di Monaco e finalmente il Gambero Rosso a San Vincenzo, dove si svolge l’incontro karmico con Fulvio Pierangelini, maestro e mentore di Entiana. “Mi sono fermata dal 2002 al 2004 e mi ha cambiato per sempre. Sono stata testimone di un amore incondizionato per la cucina e di un rapporto privilegiato con la materia prima. Fulvio è la persona più sensibile che abbia mai conosciuto in questo ambiente. Da lui ho imparato anche a rifuggire il compromesso. La sua mano mi è rimasta: nel modo di confezionare la pasta, le farce, i gelati o il purè di patate, che non potrei mai montare al burro. Al pass ci sono solo io, perché mi ha trasmesso anche il vizio di non fidarmi di nessuno”.
Le valigie volano al Relais San Maurizio della famiglia Alciati, poi alla Barrique di Torino e di nuovo nelle mani di Fulvio Pierangelini, in Sicilia. Quando nel 2011 arriva la proposta del St. Regis si posano a Firenze, da un lato all’altro di Piazza Ognissanti, fino al Se.sto on Arno del Westin Excelsior. Per Entiana è il primo incarico da chef, “qualcosa cui non avevo mai pensato, perché mi immaginavo eternamente seconda dietro una figura carismatica, senza credere fino in fondo nel mio talento. Invece costanza, tenacia e temperanza hanno finito per pagare”. Durante il restauro dell’hotel ci scappa anche uno stage al Noma di René Redzepi, in cerca di un’interpretazione avanguardista dell’anima albanese. “E ho ritrovato l’orgoglio delle mie origini. René tornava sempre in Macedonia per le vacanze estive e le nostre tradizioni sono ben presenti nei suoi piatti. Gli ho cucinato specialità albanesi che lo hanno reso felice. E ho finito per riscoprire qualcosa che sentivo familiare, ho avvertito la presenza di mia nonna e di mia zia, gli spazi di casa”.
Che i Balcani siano un crogiolo di popoli e di religioni, lo si capisce nei piatti che Entiana serve nel suo nuovo ristorante, aperto nello scorso mese di gennaio. Più essenziali di quelli del Se.Sto, ancora pregni di una volontà dimostrativa, e nitidamente artigianali, a causa della brigata ridotta. “Anche la gravidanza mi ha cambiato: spinge verso un comfort food senza fronzoli, per certi versi affine alla semplicità del Gambero Rosso”. Delle vecchie carte sopravvive comunque qualche classico: per esempio Castagne e animelle o il Monte Bianco; ma ci sono anche il maialino e il piccione al sangue, inconcepibili su una tavola d’albergo. “E sui prodotti mi sento più fortunata di un tempo, perché posso scegliere in piena autonomia il meglio della prossimità. Carni e verdure toscane, pesce della Versilia, tartufo. Cerco di costruire cicli chiusi, utilizzando per esempio la testa del maiale per la soppressata, la pancia per un piatto, la coscia in porchetta, il resto nelle crocchette e le ossa dentro il fondo. Una forma di rispetto e anche di economia, per chi come me viene dalla povertà”.
L’avventura ha preso il largo con un manipolo di giovani soci: Marco Baldesi e Stefano Sebastiani, già patron del Santo Bevitore; Michele Di Cataldo, in arrivo dal mondo del vino, Marino Vieri e Pietro Olivari, ristoratore elbano. Si deve loro la ristrutturazione del locale, nato riunificando un vecchio panificio e la bottega di un fabbro, riconoscibile grazie al pavimento in ferro. Corrono paralleli: a destra la saletta, la cantina (sopra e sotto), la cucina; a sinistra il bancone per gli aperitivi e l’after dinner, con snack fatti in casa, e due tavoli dello chef davanti alla vetrata sui fornelli. Ancora oltre ci sono un cortile interno, in uso d’estate, e un piccolo spazio coperto, che verrà probabilmente adibito a piccoli eventi. Gli arredi sono ispirati alla Milano anni ’50, in stile Mandarin; l’insegna cita il Gurdulù di Calvino, personificazione della spensieratezza e dell’istinto.
I menu cambiano ogni 6 settimane: comprendono 3 portate a 45 euro oppure 6 a 55, fra cui possibili fuori carta. Per accompagnarli c’è la carta dei vini, creatura di Di Cataldo, con le sue 250 etichette che pescano anche fuori dalla Toscana; vi risalta la selezione di Borgogna, una delle migliori in città.
Si comincia con le animelle croccantate alla farina di riso con crema di fave e vaniglia, antipasto a spiccata tendenza dolce che introduce uno dei motivi ricorrenti del pasto: le creme di verdure, comfort food per antonomasia. “I vegetali sono la mia ossessione: li infilerei ovunque, per il gusto, il costo, i colori. Quando li cucino cerco soprattutto di evitare il contatto con l’acqua, in favore di vapore, Roner e sottovuoto. In questo caso lavoro sulla dolcezza della frattaglia, accostandole elementi altrettanto soavi, con un’attenzione particolare per le intolleranze alimentari, perché Gurdulù vuole essere il ristorante di tutti. Sono sempre stata molto attenta alle problematiche nutrizionali, perché sono donna e perché fa parte della mia cultura”.
Il piatto forte sono i ravioli di cinta senese tuffati nel dashi di tuberi, dove il brodo è ottenuto secondo la tecnica giapponese, senza carne, ma con carote, zenzero, rafano e soprattutto daikon grattugiati a mano in gran copia, lasciati sobbollire e in infusione nell’acqua. “Perché è vero che non ho conosciuto direttamente la cucina orientale, ma ne ho appreso i rudimenti da tanti colleghi giapponesi. E poi li ho ripassati al Noma”. L’umami vegetale è corretto in senso agrodolce da soia e mirin; mentre la pasta è italianissima e tutta di giornata. Intense, come sempre, la speziatura e l’aromaticità.
La caponata di tuberi con crema di cavolfiore affumicato stira l’Albania dalla Sicilia al nord Europa. La crucifera è adagiata intera su una griglia con un bouquet di erbe aromatiche e vi giace coperta da un foglio di stagnola per 40 minuti; viene ridotta in crema con la sola aggiunta di acqua minerale, olio e sale. Completano il piatto le carote multicolori cotte sottovuoto con il succo di limone, il crumble di pane alle mandorle, perché i Balcani sono prodighi di frutta secca, e le scaglie di latte bruciato, che evocano una gratinatura e secondo la cuoca portano una “dolcezza secca”.
Per secondo la rana pescatrice con purè di patate aromatizzato ai capperi, ma poco dissalati. Dove il pesce è lardellato con prosciutto crudo toscano e lardo di Colonnata, quindi cotto sottovuoto per nutrire la polpa con i grassi.
Il dessert invece è un Monte Bianco, “in ricordo del mio passaggio nella pasticceria di Piazza San Carlo, Caval ‘d brons, uno dei locali più antichi di Torino”. Si compone di un biscotto di farina di mandorle e purea di castagne, con il resto della purea zuccherata e una mousse di marron glacé fortemente vanigliata, la cialda di farina di castagne e una meringa al forno, più la panna montata. Un’altura che è anche terra, a giudicare dal gambo di barbabietola essiccato fino a riprodurre una bacca di vaniglia.
Autrice: Alessandra Meldolesi
Tutte le fotografie sono di Lido Vannucchi
Ristorante Gurdulù
Via delle Caldaie 12R - 50125 Firenze
Tel. +39 055 282223
Mail: info@gurdulu.com
Il sito web del ristorante Gurdulù