50 anni di Romano a Viareggio: il prodotto come forma d’arte
1966:
a cigolare sono le serrande dorate di Tito del Molo o del Montecatini. Mentre sui fornelli di Bombetta o di Angelo in darsena sobbolle il tegame del cacciucco, accanto alla friggitrice che schiuma; le barche gettano i tramagli o trascinano le reti a fondale. Prima dell’anno zero marchesiano si mangiava già bene a Viareggio: le specialità cittadine, come la zuppa di pesce, partorita dalla migrazione dei pescatori marchigiani a inizio ‘900, che in stiva portavano una finezza tutta adriatica; gli spaghetti con le vongole, le cicale e i coltellacci, come vengono chiamati i cannolicchi in Versilia. E da qui decise di partire Romano Franceschini, che dal 1960 girava i tacchi, ben scrollati dai retaggi di un’infanzia in campagna, fra ristoranti e pizzerie cittadine, mentre sognava un locale da patron. Lui che ogni giorno da ragazzino aveva fatto otto chilometri a piedi fino alla soglia di scuola e aveva iniziato presto a dare una mano, su su fino all’omero nel podere di famiglia, da cui arrivava tutto il buono di casa.
Erano i tempi del più grande esodo della storia della ristorazione italiana, quando dalla Toscana si diffusero per la penisola le avanguardie di una nuova cucina: Aimo Moroni, salpato da Pescia alla volta di Milano, come tanti giovani di belle speranze, diretti in altri centri del nord. Si deve a loro, forse, se da quel momento le tavole iniziarono a parlare un bel volgare, nitido nella grammatica, ritmato negli accenti, rotondo nella definizione del prodotto, sempre oliato da un extravergine che faceva scorrere il piatto. Romano no, lui dalla campagna si fermò sulla costa: aveva 23 anni il 15 aprile, quando rilevò un ristorantino in via Mazzini, dove piazzò un giovane cuoco, Giuseppe Mannini, insieme a qualche aiuto. Ogni tanto a dare una mano veniva anche Franca Checchi, appena sedicenne. Artefice con lui della più grande avventura gastronomica della Versilia.
Un’autodidatta totale, Franca, svezzata alla cucina dalla mamma Giustina, che sfamava non senza estro i suoi 9 figli. Dopo il fidanzamento lampo con Romano (per il matrimonio nel '67 occorse addirittura la firma del nonno) e appena due anni ai fornelli, è lei ad assumersi la responsabilità della cucina. Dapprima con una carta rassicurante, sovrapponibile a quella degli altri esercizi viareggini; poi con un’attenzione sempre più maniacale per la qualità, nella selezione del prodotto e nelle elaborazioni. La svolta cade nel 1969, con la vittoria al concorso Piatto d'Oro del Tirreno, seguita dal premio Burlamacco nel 1972, che mette Romano e Franca in contatto con Veronelli e Carnacina.
Di qui parte anche il righello che porta dritto dritto a Linea Italia, tendenza che riunisce Franco Colombani, Antonio Santini e Lorenzo Viani, fra gli altri, su iniziativa di Anna Gosetti de 'La Cucina Italiana”. “Ogni mese andavamo a mangiare in un ristorante del gruppo per uno scambio professionale, a partire dal 1980 durante due lustri pieni. Il concetto era contrapporre ai francesismi le tradizioni del territorio, alleggerite senza snaturamenti, con pasti composti all’italiana di un antipasto, un primo, un secondo e un dessert, tutti di stagione. Ma non c’era alcuna contrapposizione con Marchesi, da cui ci recavamo volentieri a mangiare'. Il nemico era piuttosto la caricatura della nouvelle cuisine che rischiava di allignare in Italia.
Il premio, nel 1985, è la stella Michelin, che brilla ininterrottamente da 30 anni. Nel frattempo le brigate si allargano ai figli Roberto, sommelier passato per Le Cirque di Sirio Maccioni, e Maria Cristina, pasticciera poi trasvolata a Milano; le ristrutturazioni restituiscono un locale ampio e luminoso, con le vetrate azzurrine firmate Lorenzo Malfatti per la nota marinara, opere d’arte di Igor Mitoraj, Antonio Possenti e Riccardo Benvenuti, pavimenti di tek in nuance con i tovagliati di lino. Soprattutto la cucina cresce in simbiosi con il suo territorio, succhiando le eccellenze della Versilia e della Garfagnana.
“L’artista studia amorosamente la sua materia”, scriveva il filosofo Pareyson, “la scruta fino in fondo, ne spia il comportamento e le reazioni; la interroga per poterla comandare”. Ed è quello che fanno ogni giorno i coniugi Franceschini. Romano col binocolo puntato sul mercato, dove tre volte al giorno si assicura il trofeo della massima freschezza: la mattina presto nella scia di barche e tramagli; il pomeriggio a caccia di scampi, raccolti a fondale nell’arco di quattro cale, dalla mattina presto fino a sera (ma pescatori e fornitori sono ormai parte della brigata). E Franca, che quella freschezza è incaricata di preservare e valorizzare con preparazioni che hanno saputo decantarsi sempre più. Oggi straordinariamente essenziali e quasi fuori dal tempo nella loro linearità, senza alcuna velleità di strafare.
Le regole sono inderogabili. Il pesce, tutto locale e di giornata, con l’eccezione delle ostriche francesi, è sottoposto ad abbattimento solo per il crudo. Anche le verdure sono a chilometraggio controllato: vengono acquistate quotidianamente al mercato ortofrutticolo di Viareggio, dove convergono i contadini da Massarosa, Camaiore e Pietrasanta con il loro carico verde, più qualche supplemento dalla Garfagnana, come farro, castagne e porcini. L’olio è quello della casa, prodotto sulle colline di Cerreto Guidi, Vinci e Montalbano; oppure viene acquistato al frantoio di San Gennaro, sulla collina sopra Lucca, e presso altri due produttori della Lucchesia. “Lo prediligiamo perché ideale sulla nostra cucina, grazie a caratteristiche intermedie fra la delicatezza del ligure e il fruttato intenso del Chianti”, commenta Romano. Persino il vino della casa, il Pagliaio, va bevuto alla lettera: è originario di Montecarlo, come Romano. Il bianco è un uvaggio di trebbiano, sauvignon, pinot bianco e roussanne; il rosso merlot in purezza.
Le elaborazioni sono tutte espresse, senza ricorso al sottovuoto o accumuli di linea. Si tratta di cotture perlopiù brevissime, spesso mere bolliture, che non pregiudicano la qualità delle materie prime, oggi come cinquant’anni fa. Nemmeno il servizio è cambiato: una sapienza antica guida i gesti di Luigi, veterano di alberghi in Gran Bretagna, quando monta la maionese a mano in sala; o quelli dello stesso Romano, mentre pulisce la sogliola al tavolo. Ma tanti altri piatti, dal fritto al crudo, sono finiti al tavolo con un q.b. di pepe e anche di olio, in modo da assecondare la sensibilità del commensale.
Il menu degustazione, composto dei classici del ristorante, costa 95 euro; comprende solo piatti di mare, mentre la terra sbuca in carta con l’agnello di Zeri e la tagliata di manzo. L’esordio tipico è un “frittino”, abbinamento elettivo delle bollicine in aperitivo, che cedendo alla gola può diventare un secondo. La composizione, come accade un po’ a tutti i piatti in carta, segue la pesca del giorno: calamaretti, gamberetti di fondale, acciughe, soglioline appena infarinate e tuffate nell’olio di semi, perché l’extravergine sarebbe invasivo, tenendo il cronometro in mano. “È una vetrina: il nostro modo per mostrare subito la freschezza del prodotto e l’immediatezza delle elaborazioni. Pesci appena pescati e appena toccati dal cuoco”.
La fantasia di pesce crudo è enciclopedica: scampi, sparnocchi (come si chiamano da queste parti le mazzancolle), ostriche; carpacci di ombrina, triglia, sugarello, orata, dentice o pesce nero; tartare di sogliola, triglia, tonno, cicale, gamberi bianchi, rossi o viola, presentate sul cucchiaio con sobrie guarnizioni aromatiche. Assemblata secondo la stagione e il mercato, senza trascurare l’effetto cromatico, può variare secondo i desideri degli ospiti. Viene condita al momento con olio della Lucchesia (su richiesta anche di olive taggiasche), sale, pepe e zenzero sminuzzato finemente. “Abbiamo esitato lungamente prima di metterla in carta, perché non ci sembrava ‘cucina’. Poi su input dei clienti abbiamo cercato di farla nostra e di eseguirla al meglio. Del resto a Viareggio c’è sempre stata l’usanza di consumare mitili, ostriche, datteri e tartufi di mare crudi nelle bancarelle, quando girava il bel mondo”.
Monumentali, fra gli antipasti, gli scampi dell’alto Tirreno con i carciofi, sulla falsariga di un classico di Angelo Paracucchi, che però irrobustiva la maionese con panna e Worcestershire sauce. Tanto i crostacei che gli ortaggi, provenienti dalla Sardegna o dalla Maremma, secondo il periodo, vengono bolliti; mentre la maionese, preparata con l’olio di semi e due dita di extravergine, per coprire l’altro grasso, viene servita a parte. Tutte cotture svolte al momento dell’ordinazione, in modo che gli ingredienti arrivino in tavola appena scolati dal bagno di cottura. Semplicità divina su un prodotto da brividi: un piatto fuori dal tempo.
Un’altra entrée storica sono i calamaretti ripieni di verdure e crostacei, presenti in carta da 35 anni. Vengono farciti con polpa di mazzancolle appena saltate, odori appassiti nel loro olio e mollica di pane, poi passati al forno. La brevità della cottura è cruciale per mantenere la giusta umidità.
Oppure la squisita insalata di crostacei e molluschi con fagioli schiaccioni di Pietrasanta, tipici della zona, dolcissimi, teneri e burrosi. Accompagnano cicale, mazzancolle, scampi, calamaretti e polpo, bolliti separatamente e sul momento. Con il giro di mulinello di pepe nero e quello di olio a crudo a celebrare un binomio tipico delle tradizioni italiane, che ritrova lustro grazie al rigore nella semplicità. Un piatto che accompagna Romano da quella mattinata di metà aprile del 1966.
Fra i primi risaltano gli spaghetti con le arselle, identificativi del territorio, o le bavette alla viareggina, con un sugo ricco di tre qualità di pesce (scorfano, gallinella, tracina), calamaretti, vongole, arselle, scampi (di cui una coda cruda in decorazione) e pomodori freschi a metà maturazione, di serra durante i mesi invernali.
Classica la treccia di filetti di sogliola nostrale su letto di patate con tartufo bianco di San Miniato, quasi un monocromo con il suo delicato tono su tono. Patate e tartufi, come vuole la tradizione d’Oltralpe, con il pesce passato in forno sulle fettine dei tuberi, integre ancorché cremose, e la nevicata finale di puro profumo.
Puro territorio, invece, il tegamino di pesce alla viareggina. “Ma non chiamatelo cacciucco, perché i benpensanti si scatenerebbero”, puntualizza Romano. Conserva le sue 5 C grazie al consueto modus operandi, ma al posto dei tranci della tradizione nell’intingolo sguazzano i filetti. Viene preparato solo su richiesta e al momento, in una ventina di minuti, con cotture vivaci e veloci.
I dolci, moderni nelle tecniche e nella concezione, portano la firma del giovane Marco Piatti, passato per il Gallia, il Pisacco di Andrea Berton e soprattutto Aimo e Nadia. Per esempio il dessert Viareggio, servito su un impegnativo piatto in marmo di Carrara. Il modello originale è il dessert confezionato Versilia, nato negli anni ’60 e tuttora diffusissimo, composto di gelato alla Vaniglia, crema allo zabaione e un ripieno di fragola, rum, whisky o caffè. “Il whisky era il nostro preferito e da lì siamo partiti, montando uno strato di pandispagna bagnato al rum e vaniglia, cremosi di whisky e zabaione e una glassa lucida al cacao; con la granita al whisky per ripulire dalle patine grasse”, spiega Marco. Dopo i tanti bounty, fiesta e magnum parodiati nell’alta ristorazione, un’ironia postmoderna ma ispirata al genius loci.
Il biscotto al formenton 8 file con mela caramellata e ricotta è invece nato dai prodotti procacciati da Romano: la farina di mais tipica della Garfagnana e la ricotta di pecora dell’Abetone. Fra due biscotti gialli al burro è racchiusa una ciambella di mela con la ricotta nel mezzo; più la crema inglese al rosmarino in contrasto. Non era nelle intenzioni, ma la memoria corre a specialità contadine dimenticate come il brustengo di mele e farina gialla, in una re-invenzione della tradizione dettata dalla dispensa. Oppure Rottura, un guscio di meringa preparato ogni giorno e farcito al momento con cremoso al limone tipo tarte au citron, arance pelate a vivo, panna alla menta liquida nell’involucro di cioccolato bianco; più una grattugiata di mascarpone congelato in superficie. Rotto al tavolo, sul modello di celebri precedenti avanguardisti, sprigiona la freschezza balsamica di un latte e menta.
La carta dei vini, ricca di 1300 referenze e molto onesta nei ricarichi, è la creatura di Roberto. “Quando sono tornato, dopo le Cirque e la chiusura dell’enoteca con cucina a Viareggio, ho dovuto cercare una strada tutta mia, fuori dal cono d’ombra di Romano, così mi sono concentrato sulla cantina, che è cresciuta insieme a me. Ho mantenuto un occhio di riguardo per le bollicine italiane e soprattutto francesi, che sono la mia fissa e si prestano a mille occasioni, dall’aperitivo a qualsiasi festeggiamento. Ma abbiamo anche due pagine di Riesling tedeschi, che con la loro mineralità esaltano a meraviglia i crostacei crudi, e una buona selezione di vini naturali, senza fossilizzarci in uno stile. Mi piace cercare la complicità del cliente e intuirne le preferenze per coinvolgerlo in qualche scoperta, stappando una bottiglia poco conosciuta o difficilmente reperibile. Senza trascurare il nostro Pagliaio, che nella versione rossa è insuperabile sul tegamino”.
Autrice: Alessandra Meldolesi
Tutte le fotografie sono di Lido Vannucchi
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