Uova, cosa si nasconde dietro le etichette
Allevamento a batteria, a terra, all'aperto e biologico: sono queste le tipologie previste dalla normativa italiana che condizionano la qualità della vita delle galline e l’impatto più o meno forte sull'ambiente. Ecco come deve orientarsi il consumatore tra gli scaffali del supermercato.
“Nel Belpaese - denuncia l’associazione animalista Lav - l’80% delle galline ovaiole vive in gabbie di batteria. Milioni di animali reclusi in spazi più piccoli di un foglio A4, gabbie impilate in file di cinque piani, con ventilazione e luce forzata per aumentare la produzione fino a 300 uova in un anno”.
L’ottimizzazione ai massimi livelli si traduce in impossibilità ad aprire le ali, a razzolare in cerca di cibo, ad appollaiarsi o a deporre le uova nel nido. In queste condizioni, tipiche degli allevamenti “a batteria”, le galline diventano molto aggressive, tanto che è necessario tagliare il becco per contrastare il fenomeno del cannibalismo. Ai danni psicologici si aggiungono quelli fisici, considerato che le galline si ammalano facilmente - dall’osteoporosi alla crescita eccessiva delle unghie che provoca tagli continui -e tutto ciò spinge gli allevatori a curarle con massicce dosi di antibiotici. Inoltre, gli allevamenti “a batteria” sono fortemente impattanti per l’alto tasso di ammoniaca prodotto dalle deiezioni degli animali.
A livello normativo si è cercato di porre rimedio con la direttiva numero 74 del 1999 che contempla l’abolizione delle gabbie di batteria convenzionali a partire dal 2012, ma nel settore dell’industria avicola si sono registrati enormi ritardi, e di fatto l’entrata in vigore della disposizione è stata posticipata. Attualmente più della metà delle uova fresche immense sul mercato proviene dagli allevamenti a batteria, tipologia riconoscibile dal numero tre stampato sui gusci delle uova.
La qualità della vita delle galline non migliora di molto con l’allevamento “a terra” dove non ci sono gabbie, ma capannoni sovraffollati in cui ogni metro quadrato è suddiviso per contenere dodici animali. Anche in questo caso la produzione delle uova, individuabili dai consumatori dal codice due impresso sui gusci, è stimolata artificialmente con eccesso di cibo e luce artificiale per allungare la durata del giorno.
Spiragli di speranza provengono solo dagli allevamenti “all’aperto” e da quelli “biologico”. Nel primo caso, ogni gallina ha accesso quotidiano a uno spazio di terreno di circa 2,5 metri quadrati, con trespoli, lettiere e nidi in cui deporre le uova (commercializzate con il numero uno impresso sul guscio). Unico neo l’alimentazione, a base di mangimi industriali. In ultimo, ci sono le uova da allevamento “biologico”, con il codice zero stampato sul guscio delle uova, dove le galline razzolano all’aperto e vengono nutrite con mangime biologico, un mix di cereali e mais senza farine di pesce, Ogm o altri ritrovati chimici.
Perché, dunque, imporre condizioni di vita in allevamenti che rasentano la tortura se esistono quelli estensivi più umani? Per il profitto. Stando ai dati dell’ultimo report della Commissione Europea, produrre una dozzina di uova da galline allevate in gabbie di batteria costa 0,66 euro, commercializzare lo stesso quantitativo con allevamenti a terra fa lievitare il prezzo di 19 centesimi, mentre il con la produzione di uova all’aperto sfiora il costo di un euro.
Tuttavia, finchè ci sarà domanda di uova economiche la sensazione è che gli allevamenti in gabbie di batteria non chiuderanno i battenti.