Sindrome da alienazione parentale: patologia o semplice problema relazionale? Tutte le risposte sulla Pas
Si tratta del processo psicoforense secondo cui un genitore utilizza il figlio per negargli “il diritto a mantenere un rapporto equilibrato” con l'altro genitore
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In ambito psicoforense, il tema dell'alienazione parentale è uno dei più dibattuti negli ultimi anni.
Il concetto di sindrome da alienazione parentale (PAS, Parental Alienation Syndrome) è stato sviluppato da Richard Gardner nel 1985. Si tratta di una dinamica psicologica disfunzionale che si attiverebbe sui figli coinvolti in processi di separazione e divorzio conflittuale dei genitori. In sostanza, uno dei genitori (alienante), avvierebbe una campagna denigratoria nei confronti dell'altro genitore (alienato), finalizzata ad allontanare il figlio da quest'ultimo. Tutto ciò porterebbe i figli a rifiutare il genitore fino a che quest'ultimo avrebbe un ruolo sempre più marginale (Gardner, 1985).
Non è una patologia
Da allora, sono trascorsi 36 anni e in questo tempo le scienze psicoforensi hanno studiato e analizzato il fenomeno sotto tanti punti di vista. Ormai non si parla più di sindrome da alienazione parentale, in quanto la PAS come disturbo non esiste. Ad oggi continuare a riferirsi alla teoria della PAS appare metodologicamente scorretto. D'altronde è la stessa Cassazione, in una recente sentenza, ad evidenziare l'assoluta mancanza di certezza scientifica della PAS, la quale non corrisponde ad un “disturbo” clinicamente “certificabile” (Pingitore, Mirabelli e Camerini, 5 marzo 2020). Infatti una parte della comunità scientifica internazionale si è spesa anche per annoverare la PAS all'interno del DSM-5 e nell'ICD-11, ma l'OMS ha formalizzato l'esclusione della sindrome da alienazione parentale dall'elenco delle patologie riconosciute (Moia, 24 settembre 2020).
L'alienazione parentale
Fino a qualche tempo fa veniva definita PAS, intesa come sindrome, ma nel corso degli anni la teoria ha subito profondi cambiamenti: ora si parla di AP, Alienazione Parentale. Con la PAS di allora, l'attenzione veniva concentrata soprattutto sul genitore dominante-alienante e sui “sintomi” del figlio. Con il tempo, la valutazione psicoforense si è concentrata sulle dinamiche dell'intero sistema padre-madre-figlio (Pingitore, 30 ottobre 2019).
L'alienazione parentale (AP) è un concetto giuridico, non clinico. L'AP non è una patologia, non è una sindrome clinica, non è una malattia mentale. È piuttosto un'espressione per definire il processo psicoforense secondo cui un genitore utilizza il figlio per negargli “il diritto a mantenere un rapporto equilibrato e continuativo” con l'altro genitore. L'alienazione parentale è possibile rilevarla solo nei contenziosi legali di separazione. Essa rappresenta l'impossibilità di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo tra genitore e figlio principalmente a causa dei comportamenti devianti dell'altro genitore incube. Tali comportamenti tendono a svalorizzare le capacità di comprensione e decisione del figlio fino a provocare un vero e proprio rifiuto di quest'ultimo nei confronti del genitore succube il quale rivestirà un ruolo sempre più passivo e marginale. Il processo psicologico dell'alienazione parentale determina nel figlio vittima, in relazione alla sua età e alla sua capacità di discernimento, una coartazione della sua volontà. L'alienazione parentale rappresenta la negazione del diritto del figlio alla salute, alla dignità e all'autodeterminazione (Pingitore, 2018).
Come ribadisce Gulotta:
“l'alienazione parentale non è né una malattia né una sindrome dal punto di vista strettamente scientifico, ma è certamente un problema relazionale. I genitori che entrano in conflitto non fanno del bene alla salute dei loro figli, trattati spesso come ostaggi o come medaglie al valore” (Moia, 24 settembre 2020).
Il dibattito continua in quanto qualcuno afferma che se l'alienazione parentale non è presente nel DSM-5 e nell'ICD-11 allora ciò implica che gli atteggiamenti ostacolanti da parte delle madri, o dei padri, non esistono (Moia, 24 settembre 2020).
L'Ordine degli Psicologi della Lombardia, pur non volendo in alcun modo entrare nel dibattito sull'eventuale esistenza, scientificità e definizione della PAS, intende sottolineare che l'esito di tale disputa non dovrebbe in alcun modo essere utilizzato nel tentativo di negare l'esistenza di situazioni gravemente pregiudizievoli dello sviluppo psichico e relazionale dei minori coinvolti in procedimenti di separazione e/o affido. Da anni infatti gli psicologi che si occupano della conflittualità genitoriale post separazione arrivano ad identificare situazioni molto specifiche e diffuse di grave conflittualità. Difatti, in queste situazioni i genitori, al termine del progetto familiare, iniziano una battaglia che coinvolge tutto e tutti sia a livello relazionale sia a livello economico (OPL, 11 giugno 2021).
Il disagio relazionale
In tal senso Davide Baventore, vicepresidente OPL (11 giugno 2021) ha affermato: “Nelle separazioni altamente conflittuali è imprescindibile una valutazione attenta e imparziale degli equilibri relazionali tra i membri della famiglia, in primis per accertare l'assenza di qualunque forma di violenza, maltrattamento o abuso intrafamiliare, e conseguentemente per fornire al giudice un quadro utile all'assunzione di provvedimenti promossi da una buona comprensione del funzionamento di quel sistema familiare specifico. Polarizzare il dibattito pubblico attorno alla 'PAS' rischia di mettere in secondo piano la questione più importante: la resistenza o il rifiuto di un minore a incontrare uno dei genitori è un grave indizio di disagio relazionale e un fattore di rischio evolutivo la cui comprensione deve essere al centro di ogni intervento clinico, sociale e giuridico”.
Al di là dei dibattiti e delle forzature mediatiche, rimane il concetto più importante: i minori vanno protetti dagli effetti che una esasperata conflittualità tra genitori separati può produrre su di essi.