Chirurgia plastica sotto accusa: alcune protesi per il seno possono causare linfoma. Lo studio
La ricerca, condotta da due dozzine di scienziati statunitensi per sei anni, mette sul banco degli imputati l’architettura superficiale delle protesi
Foto Ansa
Leggi più veloce
Le protesi mammarie vengono utilizzate in chirurgia plastica da ormai oltre 50 anni. Le si utilizza per interventi ricostruttivi, ma anche - e ciò avviene sempre più spesso - per questioni puramente estetiche: sono milioni le donne che in tutto il mondo si sottopongono a intervento per ottenere l’aumento del seno di una o più taglie. Ma sottoporsi a tali pratiche, benché siano sempre più sicure, può esporre le donne ad una moltitudine di rischi, non ultimo alla possibilità di sviluppare un insolito tipo di linfoma. Un team di ricercatori della Rice University (Houston), del Massachusetts Institute of Technology (MIT), dell’MD Anderson Cancer Center dell’Università del Texas e del Baylor College of Medicine ha così voluto approfondire la questione e, per sei lunghi anni, ha esaminato le schede cliniche di migliaia di pazienti alla ricerca delle possibili cause scatenanti. Secondo i bioingegneri statunitensi il problema risiede nell’architettura superficiale delle protesi, che a causa dell’inevitabile accumulo di tessuto cicatriziale e altre problematiche andrebbero sostituite entro 10 anni. “La topografia superficiale di un impianto può influenzare drasticamente il modo in cui la risposta immunitaria lo percepisce - ha spiegato Omid Veiseh, assistente professore di bioingegneria alla Rice - e questo ha importanti implicazioni per la progettazione degli impianti. Ci auguriamo che il nostro lavoro possa essere di aiuto ai chirurghi plastici così che possano valutare e comprendere meglio in che modo la scelta dell’impianto può influenzare l’esperienza del paziente”.
I risultati, pubblicati sulle pagine della rivista scientifica Nature Biomedical Engineering, indicano che la via da seguire per migliorare la sicurezza dei pazienti è quella del miglioramento dell’architettura superficiale delle protesi. Renderle più lisce consente di ridurre esponenzialmente la risposta immunitaria nel soggetto. “C’è ancora molto che non capiamo su come il sistema immunitario risponda alla presenza di un impianto - evidenzia Veiseh -, ed è davvero importante capirlo nel contesto dei biomateriali”. Il collega, il professor Mark Clemens, del MD Anderson, spiega: “Clinicamente, abbiamo osservato che le pazienti esposte a protesi mammarie con superficie testurizzata possono sviluppare linfoma a grandi cellule associato a protesi mammarie (BIA-ALCL), ma questo non si è verificato con protesi mammarie a superficie liscia. Il nostro studio fornisce importanti e nuove informazioni sulla patogenesi del cancro, con chiare implicazioni per prevenire la malattia prima che si sviluppi”.
Le protesi mammarie al silicone sono in uso dagli anni ’60. Le prime versioni avevano superfici lisce, ma i pazienti sperimentavano spesso una complicazione chiamata “contrattura capsulare”. Il tessuto cicatriziale si formava attorno all’impianto e lo comprimeva, creando dolore e deformità spesso visibile ad occhio nudo. Protesi di questo tipo potevano anche ribaltarsi dopo l’impianto, richiedendo un aggiustamento o una rimozione chirurgica.
Per ovviare al problema, già alla fine degli anni ’80, alcune aziende introdussero superfici più ruvide capaci di ridurre i tassi di contrattura capsulare, garantendo così una maggiore stabilità degli impianti. Le superfici strutturate presentano picchi di altezze variabili, di alcune centinaia di micron. Queste protesi avevano però un problema occulto: esponevano le pazienti al rischio di BIA-ALCL, un cancro del sistema immunitario. Fu così che, nel 2019, la FDA chiese ai produttori di protesi mammarie di ritirare i prodotti troppo strutturati, quelli che avevano una ruvidità superficiale media di circa 80 micron.
Nel 2015, Veiseh e Joshua Doloff della Johns Hopkins University, allora postdoc nel laboratorio Langer del MIT, iniziarono a testare 5 diversi impianti disponibili sul mercato, e ne analizzarono per ognuno l’interazione con i tessuti circostanti e il sistema immunitario. Nei conigli usati come cavie i tessuti esposti alle superfici degli impianti più pesantemente strutturati mostravano segni di maggior attività dei macrofagi, cellule immunitarie che normalmente eliminano cellule e detriti estranei. Tutti gli impianti hanno stimolato le cellule immunitarie chiamate cellule T, ma in modi diversi. Lo studio ha scoperto che gli impianti con superfici più ruvide stimolavano più risposte proinfiammatorie delle cellule T. Tra gli impianti non lisci, quelli con il più piccolo grado di rugosità (4 micron) hanno stimolato le cellule T che sembravano inibire l’infiammazione dei tessuti.
La scoperta
I risultati suggeriscono che gli impianti più ruvidi sfregano contro il tessuto circostante e causano maggiore irritazione. Ciò potrebbe spiegare perché gli impianti più ruvidi possono portare al linfoma: l’ipotesi è che parte della struttura si stacchi e rimanga intrappolata nel tessuto vicino, dove provoca un’infiammazione cronica che alla fine può portare al cancro. I ricercatori hanno anche testato versioni miniaturizzate di impianti nei topi. Hanno prodotto questi impianti utilizzando le stesse tecniche utilizzate per produrre versioni a misura umana e hanno dimostrato che impianti più strutturati provocavano una maggiore attività dei macrofagi, una maggiore formazione di tessuto cicatriziale e livelli più elevati di cellule T infiammatorie. I ricercatori hanno lavorato con il laboratorio degli Hodges a Baylor per eseguire il sequenziamento dell’RNA di cellule immunitarie di questi tessuti per scoprire i segnali specifici che rendevano le cellule immunitarie più infiammatorie.
“Le proprietà superficiali degli impianti hanno effetti profondamente diversi sui segnali chiave tra le cellule immunitarie che aiutano a riconoscere e rispondere a materiali estranei - ha affermato Courtney Hodges, assistente professore di biologia molecolare e cellulare al Baylor -. I risultati mostrano che la superficie leggermente ruvida evitava la forte risposta immunitaria negativa alle citochine indotta dalla superficie ruvida”.
I ricercatori non si sono limitati ad analizzare gli effetti delle protesi sugli animali. Successivamente a questi test, infatti, hanno esaminato il modo in cui le pazienti - stavolta umane - rispondevano ai diversi tipi di protesi mammarie al silicone. E’ stato così che hanno trovato le medesime reazioni del sistema immunitario osservate negli studi sugli animali. Gli autori sperano che i loro set di dati aiutino altri ricercatori a ottimizzare la progettazione di protesi mammarie al silicone e altri tipi di protesi mediche al silicone per una maggiore sicurezza. “Siamo lieti di essere stati in grado di apportare nuovi approcci alla scienza dei materiali per comprendere meglio i problemi di biocompatibilità nel campo delle protesi mammarie - ha concluso Robert Langer, autore senior dello studio e professore del David H. Koch Institute del MIT -. Ci auguriamo inoltre che gli studi che abbiamo condotto siano ampiamente utili per comprendere come progettare impianti più sicuri ed efficaci di qualsiasi tipo”.