La Sindrome di Stoccolma, quando la persona rapita ammira il suo sequestratore
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Ultimamente si parla spesso di rapimenti e sequestri per motivi economici (estorsione) e politici che fanno da sfondo ad una guerra terribile e interminabile come quella in atto in Siria e Iraq. Purtroppo spesso questi casi finiscono con il brutale omicidio della persona sequestrata laddove non venga pagato un riscatto. Le motivazioni alla base di un sequestro possono anche essere di tipo vendicativo, a sfondo sessuale o di impeto per esercitare il pieno controllo sulla vita di qualcuno.
Cosa accade nella mente di una persona che è vittima di un sequestro? Molti possono sviluppare un disturbo da stress post traumatico (PTSD), in particolare dopo la liberazione, con ricorrenti pensieri sulla paura di ciò che è loro accaduto, incubi, disturbi del sonno, ecc.
Esiste una particolare condizione psicologica per cui la persona sequestrata manifesta sentimenti positivi e di affetto nei confronti di chi l'ha rapita: la Sindrome di Stoccolma. La persona rapita può addirittura ammirare il suo sequestratore fino ad innamorarsene. Molto spesso questa sindrome si può riscontrare nelle situazioni di violenza sulle donne, negli abusi sui minori e nei sopravvissuti ai campi di concentramento.
La spiegazione psicologica alla base di questa condizione paradossale risiede in alcuni meccanismi mentali guidati dall'istinto di sopravvivenza della vittima.
La Sindrome di Stoccolma può insorgere con maggiore probabilità nei casi in cui i soggetti coinvolti hanno passato molto tempo insieme. La vittima percepisce che la sua vita è completamente nelle mani del suo aguzzino che al contempo è l'unico che può garantirle la protezione. Si sviluppa a questo punto un meccanismo psicologico di totale attaccamento verso di lui, nell'illusoria credenza di poter evitare la morte, nell'eventualità che questa soluzione si possa verificare.
Di fatto, la persona rapita, dopo un periodo più o meno breve di terrore e confusione per la situazione forzata in cui si trova, comincia a cercare un modo per resistere a ciò che sta vivendo e quindi sviluppa questo stato psicologico che la porta ad affidarsi totalmente al proprio rapitore.
La vittima si identifica con il proprio aguzzino ed in questo modo riesce a comprendere le motivazioni che l'hanno spinto a rapirla e a comportarsi in un determinato modo. Questo meccanismo psicologico permette alla vittima di tollerare le violenze subite fino ad annullare la rabbia e il rancore che invece sarebbe lecito nutrire nei confronti del proprio carnefice.
La vittima vive un forte senso di impotenza rispetto ad una reale possibilità di fuga. Una volta che la persona rapita ha la certezza di non potersi liberare autonomamente, a livello psicologico si attivano risorse volte ad evitare che si possano verificare eventi temuti. La vittima tende quindi a comportarsi in modo docile e remissivo e solitamente il rapitore rimanda feedback positivi rispetto a comportamenti di questo tipo. Si crea così un circolo vizioso che rinforza determinati atteggiamenti da entrambe le parti fino ad evidenziare che gli effetti della Sindrome di Stoccolma possono coinvolgere anche l'aguzzino che può sviluppare a sua volta sentimenti positivi verso la vittima.
La Sindrome di Stoccolma prende il nome dalla città omonima presso la quale a seguito di un sequestro a scopo di rapina, alcuni degli ostaggi una volta liberi, manifestarono dei sentimenti positivi verso i criminali, sentendosi in debito per la gentilezza e la generosità dimostrate. In particolare, il 23 agosto del 1973 Jan Erik Olsson, a quell'epoca trentaduennenne, ed un suo complice fecero irruzione nella sede della Banca di credito svedese a Stoccolma per compiere una rapina. In quel momento nell'istituto si trovavano anche quattro giovani donne. Il sequestro degli ostaggi a Stoccolma durò sei giorni, si risolse con la riconsegna dei sequestrati sani e salvi e con la resa dei rapinatori. Ma ciò che turbò l'opinione pubblica preoccupata per il rischio di vita in cui si trovavano gli ostaggi, fu l'atteggiamento imprevisto delle vittime del sequestro. Oggi Olsson, pacifico pensionato di 74 anni, racconta del momento in cui gli ostaggi si schierarono dalla sua parte: “I primi tre giorni ho sempre indossato una parrucca nera e avevo la faccia coperta di una crema marrone. Dovevo sembrare un terrorista arabo. Non parlavo svedese, solo inglese. Vedevo la paura nei loro occhi, ed era quello volevo. Poi quando ci siamo rifugiati in una sorta di corridoio all’interno della banca, quasi un tunnel, per essere più lontani dalla polizia, le cose sono cambiate. Mi sono tolto la parrucca, e ho parlato. Vede, il mio accento dello Skåne si sente molto... Abbiamo iniziato a raccontarci le nostre vite, i nostri sogni, le paure. Gli raccontavo dei miei figli - pensi, uno di loro oggi fa il poliziotto. Vedevo che gli ostaggi avevano sempre meno paura. Poi uno di loro mi chiese di andare al bagno. Mi disse “Signor rapinatore”, proprio così, “Signor rapinatore, posso andare alla toilette?”. Ero stanco, sapevo che i servizi erano vicino alla polizia, sapevo che sarebbe scappata, ma le dissi ugualmente: - Vai, ma vedi di tornare -” (La Stampa, 23 agosto 2013). La donna, nonostante i vari tentativi di convincimento di scappare da parte della polizia, tornò dal rapinatore.
Alcuni esempi famosi di vittime di sequestri che hanno manifestato comportamenti tipici della Sindrome di Stoccolma sono: l'americana Patricia Hearst, ricca ereditiera diventata guerrigliera simbionese, l'austriaca Natascha Kampusch sequestrata per anni dal padre, l'italiana Giovanna Amati vittima di un sequestro dei marsigliesi, ecc.
Come è già stato detto la Sindrome di Stoccolma non è codificata in nessun manuale diagnostico, in quanto non viene considerata un disturbo a tutti gli effetti. Eppure, sarebbe interessante approfondire le dinamiche psicologiche che sono alla base di quei comportamenti legati a tale sindrome così da poter individuare approcci psicologici d'aiuto più efficaci nei confronti delle vittime di determinate violenze o che hanno subito gravi privazioni della propria libertà.