Io confesso. La psicologia delle false ammissioni
Recenti fatti di cronaca come il delitto di Sarah Scazzi ad Avetrana e le molteplici dichiarazioni di Michele Misseri, sono lo spunto per approfondire un aspetto particolarmente interessante della psicologia: le false confessioni.
È molto difficile non credere ad una persona che ammette di aver commesso un reato. Ma è davvero possibile rilasciare una falsa confessione? Questo fenomeno non è poi così raro. Recenti ricerche hanno stabilito che negli Stati Uniti il 20-25% delle persone ha confessato di aver commesso un reato pur essendo stata discolpata dal test del Dna (Kassin, 2008). Questa percentuale è più alta nei casi di omicidio (White, 2003) e bisogna sottolineare che i casi che emergono sono solo la punta dell’iceberg (Drizin e Leo, 2004).
In alcuni casi le persone dicono di aver commesso un reato per avere un periodo di notorietà, anche se per un motivo disdicevole. In altri casi pare che una falsa confessione sia causata da interrogatori mal condotti da alcuni funzionari di polizia oppure dal fatto che le persone coinvolte più o meno direttamente in una situazione criminosa non sfruttano la possibilità di contattare un avvocato e di rispondere in sua presenza alle domande poste dalle forze dell’ordine. Questo comportamento spesso viene tenuto proprio dalle persone innocenti che ritengono di non aver bisogno di una difesa e preferiscono rispondere agli interrogatori senza un ausilio legale con conseguenze talvolta molto negative (Mazzoni, 2011). Alcuni studiosi hanno identificato tre tipologie di false confessioni: volontarie, estorte a forza e interiorizzate (Kassin, 2008).
Le false confessioni volontarie vengono fatte per attirare l’attenzione su di sé, per proteggere qualcuno a cui si tiene o per patologie mentali. In pratica la persona confessa senza essere stata spinta dalla polizia a farlo. Spesso queste confessioni si verificano nel contesto di delitti di “alto profilo”, come l’omicidio di una persona famosa. Ad esempio, quando nel 1947 venne uccisa l’attrice Elisabeth Short, protagonista del film Black Dahlia, confessarono il delitto più di cinquanta persone. Nel 2006 John Mark Karr confessò l’insoluto omicidio del giovane JonBenet Ramsey.
Le confessioni estorte a forza sono attribuibili alle procedure di interrogatorio della polizia che talvolta possono indurre una persona a confessare senza aver commesso il fatto. Ciò avviene perché l’individuo vuole uscire da una situazione stressante, per evitare una punizione, per ottenere un profitto o una ricompensa. Infatti egli ha la percezione che i vantaggi del confessare a breve termine siano maggiori rispetto ai costi a lungo termine. Questo fenomeno è stato drammaticamente spiegato attraverso un caso che si è verificato nel 1989 (il “Central Park jogger case”), in cui cinque giovani di New York confessarono dopo lunghi interrogatori di aver stuprato una ragazza e di averla ridotta in fin di vita perché era stato detto loro che se avessero confessato sarebbero tornati a casa subito. I giovani furono dichiarati colpevoli e andarono in prigione. Solo nel 2002 furono scarcerati perché il vero colpevole fornì una confessione confermata dal test del DNA (Kassin, 2008).
Le false confessioni interiorizzate sono particolarmente interessanti perché il testimone riporta dettagli inventati che lo coinvolgono nel reato, ma senza che vi sia l’intenzione di mentire. In pratica si tratta di persone innocenti ma vulnerabili, sottoposte ad interrogatori con tecniche suggestive, che non solo rilasciano una confessione, ma cominciano a credere di aver commesso davvero il reato in questione. Tale fenomeno è evidente analizzando il caso di Michael Crowe, quattordicenne la cui sorella fu trovata uccisa a coltellate nella sua camera. Dopo lunghi interrogatori durante i quali Crowe fu indotto a credere che ci fossero prove schiaccianti della sua colpevolezza, egli concluse di essere l’assassino dicendo: “Non sono sicuro di come l’ho fatto. Tutto quello che so è che l’ho fatto” (Drizin e Colgan, 2004, p. 141). Alla fine Crowe si convinse di avere una doppia personalità: il Michael “cattivo” aveva agito per gelosia, mentre il Michael “buono” aveva rimosso l’accaduto. Le accuse contro Michael caddero in seguito quando venne trovato il sangue della sorella sui vestiti di un vagabondo del quartiere (Kassin, 2008).
Perciò, è evidente che le confessioni risultano “pregiudizievoli e altamente dannose per l’imputato, se sono il prodotto di un interrogatorio coercitivo, se non sono supportate da altre testimonianze o elementi di prova e se il colpevole non risulta tale oltre ogni ragionevole dubbio” (Drizin e Leo, 2004, p. 959). Le false confessioni quindi esistono, ma allora si può credere alle confessioni? Quando si ottiene una confessione è difficile non considerarla una prova finale e del resto nella maggior parte dei casi la persona che confessa è poi condannata. D’altra parte il senso comune porta a credere che nessuno confesserebbe un delitto che non ha commesso. I risultati di molte ricerche in quest’ambito hanno spinto gli studiosi a suggerire di videoregistrare tutti gli interrogatori, soprattutto nei casi di crimini gravi e a proporre che l’investigatore che conduce l’interrogatorio non sappia se la persona è un semplice testimone o se è l’accusato (Mazzoni, 2011).