Il nemico che ci salva: il valore del sintomo!
Ogni sintomatologia racchiude in sé uno stato di sofferenza, a volte fisica, a volte psicologica e il più delle volte che riguarda entrambi gli ambiti. Il sintomo è l’evidenza di ciò che ci fa stare male e da cui ci si vuole liberare il più in fretta possibile, ma è anche quel prezioso campanello d’allarme che trilla, apparentemente all’improvviso, e che ci costringe a prestare attenzione a qualcosa che fino ad allora avevamo provato ad aggirare. Quella scossa, avvertita proprio in quel determinato momento, ci sveglia dal torpore di una situazione che già ci creava disagio e che invece attraverso il sintomo si palesa.
In psicoterapia il significato del sintomo è sempre molto prezioso, consente di risalire a ciò che crea il disagio, alle tentate soluzioni messe in atto fino a quel momento, analizzando quella che oramai risulta essere disfunzionale e che ha dato origine al sintomo stesso.
Il sintomo è pertanto un messaggero salvifico, un alleato scomodo - ma pur sempre un alleato - e più lo accogliamo e cerchiamo di capirlo e parlare la sua lingua, maggiormente saremo in grado di coalizzarci con lui per comprendere come si è generato e come funziona.
Ma perché si sviluppa una sintomatologia piuttosto che un’altra, come mai “scegliamo” proprio quel disturbo?
Quel particolare sintomo assume un significato e un ruolo nel vissuto di chi ne è vittima, quel sintomo, e lo stile comportamentale che lo sostiene, comunica qualcosa sia a se stessi che al sistema di relazioni del soggetto. Il “linguaggio” con cui parla il sintomo è immediato, suscita reazioni rapide e arriva dritto dove intende arrivare, raggiunge il bersaglio senza “se” e senza “ma”.
Questo aggiunge una importante riflessione relativa a ciò che viene definito come “vantaggio” secondario del sintomo.
Parecchi lettori probabilmente sgraneranno gli occhi e salteranno sulla sedia leggendo che, dietro a una condizione di malessere si può celare una parte “conveniente” nella struttura di personalità di chi lo sperimenta. Eppure è così!
Provate a pensare a quando da bambini avevate la febbre. Stavate male certo, ma probabilmente avevate l’attenzione dei vostri cari, potevate non andare a scuola e non fare i compiti o evitare di avere altre incombenze. E ancora, provate a pensare a quando la febbre andava via, eravate felici di star bene certamente, ma in fondo in fondo, quello stato di malessere vi aveva comunque “regalato” qualcosa.
Se il disturbo fosse soltanto terrificante e non avesse anche un “tornaconto” nascosto, non avrebbe alcuna forza e si estinguerebbe.
È proprio quella parte vantaggiosa che mantiene il sintomo, che lo rende sopportabile e che lo stabilizza dandogli potenza. È quella parte che, nonostante il disagio, ci restituisce qualcosa che ci interessa di più e che ci mette nella condizione di sopportare il prezzo da pagare.
Quest’altro lato della medaglia è ciò che può rendere più difficile la presa di coscienza per un cambiamento: uno stato di equilibrio disfunzionale è pur sempre un equilibrio conosciuto e stabile e modificarlo significherebbe esporsi a nuovi sistemi di funzionamento, a nuovi rischi e spingerebbe a spendere energia per costruire un modo nuovo di vedere le cose.
È necessario dunque porsi una strana ma prodigiosa domanda, che possa far riflettere su ciò che a volte si preferisce non considerare: “se magicamente il sintomo non ci fosse più, cosa potrei riacquistare nella mia vita e cosa potrei invece perdere?”