Gamberetti, piatto indigesto per ambiente e popolazioni locali
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Un piatto di gamberetti cucinati a dovere fa gola a molti, eppure celano disastri ambientali e danni alle popolazioni locali talmente elevati che passa l’appetito. Un discorso che vale sia per quelli che provengono da allevamenti ittici, sia per quelli selvaggi (interi o sgusciati).
Secondo gli ultimi dati elaborati dalla Fao, i gamberi e i gamberetti sono i prodotti più commercializzati nel comparto ittico internazionale, con quote di pescato che raggiungono i 3,4 milioni di tonnellate per anno. Le principali provenienze sono Cina, Thailandia, Indonesia, India, Vietnam, Brasile, Ecuador e Bangladesh.
Gli introiti economici arricchiscono le multinazionali del settore che però non salvaguardano né l’ecosistema né le indigenti popolazioni locali. La maggior parte di questi piccoli crostacei che finiscono sulle nostre tavole proviene dalla pesca intensiva. È praticata con reti a strascico nelle acque intermedie o sul fondo, un metodo che causa catture accidentali di qualsiasi forma di vita marina che spazia dai pesci alle tartarughe, senza risparmiare nemmeno le specie in via d’estinzione.
Non va meglio con la pesca negli allevamenti. Questi ultimi provocano la distruzione di interi ecosistemi legati all’abbattimento lungo le coste tropicali di ampie zone forestali di mangrovie per fare spazio agli impianti di acquacoltura. La scomparsa delle mangrovie si traduce in perdita della biodiversità, progressiva salinizzazione delle falde di acqua dolce e desertificazione delle zone coltivabili. Ma non finisce qui, considerato che gli allevamenti intensivi di gamberetti provocano un forte inquinamento delle acque costiere dovuto sia agli escrementi e agli avanzi di cibo, sia ai disinfettanti, agli antibiotici e ai pesticidi gettati nelle vasche per evitare la moria dei gamberi allevati.
“La diffusione dell’acquacoltura di gamberetti- denuncia la fondazione Slow Food- mette a rischio la sicurezza alimentare e la cultura di milioni di esseri umani, distruggendo le loro fonti di reddito”.
Gli impianti di allevamento spesso privatizzano terreni e vie navigabili pubbliche devastando gli habitat, limitando le possibilità di accesso alle acque, nonché le possibilità di sostentamento con pesca o agricoltura tradizionale.
Nessuna buona notizia nemmeno sul fronte del beneficio occupazionale locale. Un recente rapporto dell’associazione Altroconsumo, che riprende i dati di varie associazioni per i diritti umanitari in Thailandia, mette in evidenza come buona parte della forza lavoro nel settore della lavorazione dei gamberetti è costituito da immigrati senza tutele che arrivano dalle zone confinanti.
A ciò si aggiunge la piaga del lavoro minorile. “Secondo i dati della fondazione Labour rights promotion network- si legge nel report - gran parte dei lavoratori è minorenne. Il 19% ha meno di 15 anni, mentre un altro 22% è tra i 15 e 17 anni. Spesso si lavora all’interno di capannoni sporchi e malsani, esposti a sostanze chimiche aggressive e senza cure mediche in caso di necessità. Sopravvivono alla mercé di caporali che li brutalizzano e che, dopo aver requisito loro i documenti, li tengono in pugno. Sono costretti a sgusciare gamberetti anche per dodici ore al giorno”. Scenari da brivido.
Le conseguenze sull’ecosistema e sugli stili di vita delle popolazioni locali variano da un allevamento all’altro e da un Paese all’altro poiché le certificazioni sulla sostenibilità socio-ambientale dei gamberi non sono molto diffuse in quanto non obbligatorie. Al momento è difficile rintracciare con chiarezza l’origine dei gamberetti che si acquistano e sapere al netto di quali costi ambientali e sociali siano stati allevati.