Follia, disperazione o vendetta: quando una madre uccide il proprio figlio
Una donna di 41 anni di Crema (Cremona) si è uccisa con il gas insieme alla figlia di due anni. La donna non era sposata. La figlia era nata da una relazione con un primario dell’ospedale di Crema, che l’aveva riconosciuta. Il rapporto con la madre della bambina, che non aveva altri figli, sembra fosse finito da tempo. Un’amica della vittima ha confidato ai cronisti che la donna aveva manifestato timori per il futuro suo e della figlia: non aveva problemi economici, ma non lavorava ed era depressa (Il Giornale, 21 luglio 2011).
Ancora madri che uccidono i propri figli. Cosa si scatena nelle mente di queste donne che le porta ad uccidere ciò che loro stesse hanno concepito? Quali modalità adottano per porre fine alla vita del figlio? Il modus operandi più frequente utilizzato dalle madri per uccidere è il soffocamento seguito dallo strangolamento. Altre modalità comprendono: percosse con diversi strumenti che provocano il trauma cranico, annegamento, accoltellamento, defenestrazione, avvelenamento, asfissia da gas, ecc. (Mastronardi e Villanova, 2008). Resnick (1969) ha proposto una classificazione che comprende cinque categorie di infanticidio, sottolineando come il periodo più a rischio per un minore è quello fino a sei anni di vita.
Le categorie individuate da Resnick comprendono il figlicidio:
- altruistico: in questo caso la madre spesso si suicida dopo aver ucciso il figlio malato (suicidio allargato) per salvarlo da una vita di sofferenze. A questo comportamento si associa la Sindrome di Beck, cioè una visione pessimistica di sé e del proprio futuro;
- con elevata componente psicotica: la madre uccide il figlio dando ascolto ad allucinazioni che le 'ordinano' di commettere il brutale gesto;
- di un bambino indesiderato: si verifica quando il figlio è nato da una relazione extraconiugale o perché la madre è troppo giovane e immatura. In questo caso i tentativi di suicidio della donna sono scarsi;
- accidentale: la madre, già abituata a picchiare il figlio, ne causa la morte a causa di un gesto impulsivo in seguito alle urla e ai pianti del bambino. La donna spesso soffre di disturbi di personalità e irritabilità. Spesso si tratta di donne che hanno subito violenza da piccole e il marito è poco partecipe ai problemi della famiglia;
- per vendetta sul coniuge.
Mastronardi (2006) propone un’altra classificazione delle motivazioni che portano all’infanticidio dividendoli in due blocchi: il primo riguarda le madri che sono responsabili penalmente e quindi imputabili ed il secondo che invece comprende le donne per le quali sussistono cause psicopatologiche che ne compromettono parzialmente o totalmente la capacità di intendere e di volere.
In generale, al di là delle singole classificazioni, i moventi che spingono una madre ad uccidere il proprio figlio sono molteplici e concatenati a livello psicologico, sociale e relazionale. Possono verificarsi casi in cui una madre ha vissuto di recente una grave perdita affettiva (lutto o separazione), si sente isolata a livello sociale, subisce violenza tra le mura domestiche, ha una bassa autostima, desidera essere indipendente ed ha paura di avere dei vincoli in vista di una relazione presente o futura, soffre di disturbo narcisistico o istrionico di personalità, soffre di depressione, ecc.
È importante quindi che una donna viva la gravidanza e la successiva nascita di un figlio con serenità, aspetto che le è garantito dalla vicinanza e dall’amore del partner e delle persone a lei care.
Se sfortunatamente dovesse mancare uno di questi elementi, alla base di tutto c’è l’idea che la società dovrebbe trasmettere alle donne di non temere di perdere il proprio ruolo sociale e lavorativo per una maternità, di non far sentire la nascita di un figlio come un peso, come qualcosa che blocca il progredire della loro vita sociale e professionale, che non sia una preoccupazione per paura di non avere sufficienti guadagni per sostentarlo, ma che le porti a ripartire da qualcosa di nuovo e di bello senza sentirsi sole.