Flussi migratori e crisi ambientali, un connubio sempre più stretto dai risvolti tragici
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Tra i temi del Rapporto Italia 2018 di Eurispes, ente che si occupa di studi politici, economici e sociali, ci sono i fenomeni migratori, di cui una causa è il land grabbing che costringe, chi si vede privato della propria terra, ad andare via.
Neo-colonialismo, lo chiama il Rapporto, precisandone la natura finanziaria e predatoria. Il land grabbing viene, infatti, perpetrato con “metodi subdoli e ambigui” e vede “l’accaparramento dei terreni agricoli e delle risorse idriche” per mano di investitori, settori finanziari occidentali, Stati o fondi sovrani. Tutto ciò comporta la “negazione dei tradizionali diritti di proprietà, espropri, esodi di intere popolazioni, sfruttamento eccessivo delle risorse naturali e, in primo luogo, dell’oro blu (acqua), corruzione delle classi dirigenti locali, militarizzatione delle aree interessate dagli investimenti, fomentazione di scontri e guerre tribali o religiose”. Il meccanismo prevede, spiega il Rapporto che poco prima aveva citato La guerra d’Africa di Michele Di Salvo, che le zone interessate dal land grabbing e destinate alle coltivazioni intensive vengano “di fatto spopolate” con gli “abitanti obbligati all’inurbamento forzato” e “centinaia di migliaia di africani” costretti “a trasferirsi nelle bidonville dei grandi centri urbani e, successivamente, ad alimentare i flussi di emigrazione gestiti dalle organizzazioni criminali”.
La denuncia del Rapporto è in questo senso incisiva: “In conclusione, sfruttati in patria, derubati, torturati e violentati durante il tragitto verso l’Europa, malamente accolti e discriminati nei paesi cosiddetti civili, quegli stessi che ne provocano l’impoverimento. Tutto questo rende quantomeno poco comprensibile l’atteggiamento di chiusura che l’Europa mostra oggi. Si alzano muri e si erigono barriere, si adottano misure restrittive, si intensificano i controlli e le difese. Si usa come giustificazione una presunta necessità di proteggersi e di difendersi in parte nei confronti del terrorismo e in parte con la necessità di tutelare il proprio livello di benessere, o, di preservare l’identità e i valori etici e religiosi”. In un altro passo il concetto viene ancor meglio precisato: “Trasformare i problemi in paure è utile per gli agitatori politici che ne hanno fatto una rendita, serve a far crescere il consenso, non nella ricerca delle soluzioni. Le paure generano indignazione, odio sociale, xenofobia e razzismo; strumenti di lotta contro i nemici, gli invasori, le minoranze. Accendono il fuoco dell’odio e dell’intolleranza, ma non conducono ad alcuna soluzione concreta”.
Altro fenomeno descritto dal Rapporto è quello della migrazione ambientale: “Rifugiati ambientali o climatici, migranti forzati dall’ambiente, persone dislocate a causa delle condizioni ambientali, eco-rifugiati. Sono tante le definizioni che si sono avvicendate sul fenomeno della migrazione climatica, spesso in contrapposizione con lo status di rifugiato in vigore nel diritto internazionale. Un fenomeno che non si riesce ancora a quantificare con precisione, in particolare perché solitamente è una migrazione interna ai confini nazionali degli interessati (Internal Displaced Persons). Recentemente l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni ha definito questa tipologia di migrazione: persone che, per motivi imperativi di cambiamenti dell’ambiente sono obbligati a spostarsi, in maniera temporanea o definitiva, sia all’interno del loro paese sia uscendo dai propri confini”.
Tra i cambiamenti ambientali ci sono la siccità, la desertificazione, l’innalzamento del livello del mare, le inondazioni, le tempeste, l’interruzione dei modelli meterologici stagionali – ad esempio, i monsoni. Un recente rapporto della World Bank dal titolo Groundswell – Preparing for Internal Climate Migration ha, ad esempio, stimato che entro il 2050 circa 143 milioni di persone dell’Africa sub-sahariana, Asia meridionale e America Latina, che rappresentano il 55% della popolazione dei paesi in via di sviluppo, potrebbero diventare migranti climatici all’interno dei loro stessi paesi, muovendosi da aree meno vitali con una minore disponibilità di acqua e produttività delle colture e da aree colpite dall’innalzamento del livello del mare e dalle mareggiate. Una migrazione, secondo il rapporto, destinata ad accelerare a meno di significativi tagli alle emissioni di gas serra e di solide attività di sviluppo.
Dal canto suo, il Rapporto Eurispes ricorda i circa 3 miliardi di persone che già vivono in ambienti dalle condizioni climatiche destinate a cambiare nel medio-periodo, un “fenomeno complesso e multidimensionale” che a causa della sua vastità richiederebbe un “maggiore investimento di energie e risorse economiche” tali da “disegnare adeguate politiche di prevenzione e di gestione integrata”.
La soluzione viene così individuata in un “approccio glocal” con una “pianificazione globale e locale di politiche di sviluppo sostenibile” vista come tra le “misure più adeguate” per “alleviare l’impatto dei flussi migratori causati dai disastri ambientali” e “favorirne la gestione degli effetti, sia nei paesi industrializzati, sia nei paesi in via di sviluppo”. I primi strumenti già ci sono: il Rapporto cita, in questo senso, la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico e il Protocollo di Kyoto.
Abbiamo parlato di:
Eurispes Website Twitter Facebook
World Bank Group Website Twitter Facebook Instagram Flickr LinkedIn
Groundswell – Preparing for Internal Climate Migration Scheda
Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico Testo
Protocollo di Kyoto Scheda