Il figlicidio e il complesso di Medea: cosa c'è dietro l'uccisione della piccola Elena e nella mentre della madre
Gran parte delle informazioni diffuse a mezzo stampa su Martina Patti collima con puntualità agghiacciante con gli elementi diagnostici del complesso di Medea
L’uccisione di un figlio da parte di una madre è un tabù universale, un tabù così antico da essere probabilmente inscritto nel dna umano. Per questo, il figlicidio materno rappresenta per la collettività un delitto inimmaginabile, incomprensibile e inumano.
La morte della piccola Elena
L’impietosa fine di Elena, 5 anni da compiere, accoltellata a morte, malamente infilata in strati di sacchi neri e gettata in un campo dalla madre ventitreenne Martina Patti ha causato un boato mediatico d’incredulità e d’indignazione. Ad esasperare il dramma, la pantomima diabolica dell’assassina, che ha da subito tentato il depistaggio denunciando un fantasioso rapimento a mano armata.
Il complesso di Medea
La sceneggiata ordita a propria discolpa, le sette coltellate, la vanga, il piccone, i sacchi di plastica e il caratteristico distacco emotivo verso la vittima e per le proprie azioni, collocano nettamente la giovane madre catanese nel quadro criminale del complesso di Medea; un quadro cupo, inquietante e magmatico che configura la soppressione della prole come vendetta su un padre percepito ormai come nemico cui infliggere la pena più lacerante e irreversibile: lasciare che sopravviva alla morte di una figlia o di un figlio.
L’identikit della madre assassina
L’identikit della madre figlicida. Età media compresa tra i 25 e i 30. Livello socio-economico difficoltoso e bassa scolarità. Coniuge o partner in una coppia altamente conflittuale, abusiva o trascurante. Oppure, madre abbandonata con un bambino in età precoce, in un contesto familiare allargato non supportivo, lacerato o disfuzionale. Atteggiamento tendenzialmente austero, impositivo, con episodi significativi d’irritabilità e discontrollo degli impulsi. Familiarità con disturbi psichiatrici: depressione, psicosi, dipendenze o disturbi di personalità (borderline, narcisistico, antisociale, paranoide). Così la letteratura scientifica tratteggia l’identikit della madre che uccide il proprio bambino come ritorsione assoluta nei confronti dell’altro genitore, verso il quale permangono sentimenti abnormi di gelosia, d’ingiustizia e/o di rivalsa.
Duelli affettivi e giochi di potere
Gran parte delle informazioni diffuse a mezzo stampa su Martina Patti collima con puntualità agghiacciante con gli elementi diagnostici del complesso di Medea e i principali fattori di rischio implicati nel figlicidio. In particolare, quando si verifica un delitto simile, è fondamentale considerarlo come un evento multi-fattoriale che chiama in causa il sistema delle relazioni in cui il crimine matura in un incubatore silenzioso di disamore, duelli affettivi e giochi di potere, provocazioni e schieramenti in guerra più o meno manifesta.
I segni premonitori
Come psicoterapeuta, ritengo altamente improbabile che l’assassinio premeditato della piccola Elena non sia stato preceduto da eventi, sintomi e conflitti rilevanti o gravi; accadimenti che all’interno di sistemi relazionali multi-problematici vengono di norma sottostimati o ignorati troppo frequentemente. Maltrattamenti verbali o fisici, “dimenticanze” riguardo l’accudimento, scoppi d’ira e/o episodi esplosivi di panico o d’angoscia, che tendono a svanire con subitaneità sospetta possono rappresentare segnali d’allarme importanti. Elementi che, in un “mondo giusto”, necessiterebbero di una consulenza professionale e di interventi psicoterapeutici ad hoc.
Un lutto che rende tutto insicuro
Il figlicidio materno determina un lutto assoluto, un lutto che si propaga nella rete sociale tra parenti, bambini, insegnanti. Un lutto che colpisce nonni, madri, padri, fratelli, zii con un potenziale traumatico proporzionale alla sensibilità e alla biografia di ciascuno. La violenza di un’uccisione infantile per mano materna non può che costituire una frattura nelle sicurezze più profonde e archetipiche di ogni essere umano. Se una madre può accoltellare a morte una bambina e occultarne il corpo, non si può più essere certi di nulla. Non c’è più nulla di sicuro.
Prevenire il contagio dell’odio
Il trauma collettivo con epicentro Marina Patti dovrebbe innanzitutto essere affrontato con protocolli emergenziali di psicologia e psicoterapia nella scuola del paese teatro dell’uccisione e, in parallelo, coinvolgere le famiglie direttamente interessate; per poi, a raggiera, includere il più ampio numero di persone toccate dalla vicenda. Si tratta di una lavoro enorme, certo, ma il solo potenzialmente in grado di prevenire il contagio dell’odio, del disagio e dell’ignoranza sentimentale disseminate sul piano trans-generazionale da una vicenda così sconvolgente.