Caporalato e nuovi schiavi, la filiera sporca del cibo: perché anche Bruxelles è complice
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Dagli antichi schiavi delle piantagioni di cotone agli schiavi moderni, sullo sfondo multinazionali e aziende senza scrupoli, con le ultime che si affidano ad intermediari illegali, i caporali, che sfruttano stati di necessità e indigenza.
Un mare di schiavitù in cui nuota anche la malavita, non a caso sempre più interessata alle ondate migratorie. In Calabria, ad esempio, la ’ndrangheta pesca nel bacino dell’immigrazione clandestina, sfruttando i nuovi schiavi invisibili per il lavoro nei campi e alloggiandoli in stalle e porcili. Molti dei prodotti che oggi arrivano sulle tavole italiane, con i consumatori ignari, hanno, infatti, un peccato originale. Una filiera sporca che distorce anche il mercato.
Una piaga che non è solo italiana, come rivela il rapporto sulle buone pratiche contro lo sfruttamento del lavoro in agricoltura frutto della collaborazione fra Coop Italia e il Milan Center for Food Law and Policy, presieduto da Livia Pomodoro, ex presidente del Tribunale di Milano. Un accordo maturato all’indomani dell’arresto di sei persone dopo le indagini della Procura di Trani sulla morte della bracciante agricola Paola Clemente, anche lei vittima del caporalato. Un rapporto concepito come analisi del fenomeno su scala europea con l’invito a “tenere alta la guardia in Italia come in Europa” così Livia Pomodoro “nella battaglia per il rispetto dei diritti fondamentali, primo fra tutti quello del lavoro e del lavoro agricolo in particolare”.
Secondo il rapporto in Italia un terzo del lavoro agricolo è irregolare, un sommerso pari a 17 milardi di euro con lo sfruttamento, in particolare, di donne e immigrati clandestini. “Il caporalato è una delle espressioni del sistema di reclutamento e sfruttamento che ha permesso a diecine di migliaia di aziende agricole, spesso di grandi dimensioni, di ottenere guadagni illeciti milionari a discapito dei diritti dei lavoratori e non solo”, così, il sociologo Marco Omizzolo. Nè è un caso che il caporalato continui a prosperare con l’acuirsi del fenomeno migratorio. Un cancro sociale, il primo, che ha nei sostenitori ad oltranza dei flussi migratori illegali i migliori alleati.
Il rapporto è stato presentato il 31 maggio scorso al Paul Henri Spaak Building, sede del Parlamento Europeo a Bruxelles, con l’appello a uniformare le normative nazionali sul lavoro per “eliminare le distorsioni del mercato e trasformare il lavoratore nel vero garante della filiera etica”. Un problema, tuttavia, ancora più a monte. Mentre c’è chi invoca una maggiore uniformità normativa o la necessità di un criterio di qualità aziendale, le politiche comunitarie favoriscono, grazie ad agevolazioni doganali, l’ingresso nell’Unione Europea di prodotti risultato dello sfruttamento dei lavoratori o dannosi per la salute dei cittadini comunitari. “Non è accettabile che alle importazioni sia consentito di aggirare le norme previste in Italia dalla legge nazionale sul caporalato” denuncia Roberto Moncalvo, presidente Coldiretti “ed è necessario, invece, che tutti i prodotti che entrano nei confini nazionali ed europei rispettino gli stessi criteri a tutela della dignità dei lavoratori, garantendo che dietro tutti gli alimenti, italiani e stranieri, in vendita sugli scaffali ci sia un percorso di qualità che riguarda l’ambiente, la salute e il lavoro, con una giusta distribuzione del valore a sostegno di un vero commercio equo e solidale”.
Con il risultato di un’invasione, con la merce che finisce sugli scaffali dei supermercati dell’Unione Europea, di prodotti frutto di un “caporalato invisibile” che, spiega Coldiretti “passa inosservato solo perché avviene in Paesi lontani, dove viene sfruttato il lavoro minorile, che riguarda in agricoltura circa 100 milioni di bambini secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), di operai sottopagati e sottoposti a rischi per la salute, di detenuti o addirittura di veri e propri moderni schiavi. E tutto questo accade nell’indifferenza delle istituzioni nazionali ed europee che anzi spesso alimentano di fatto il commercio dei frutti dello sfruttamento con agevolazioni o accordi privilegiati per gli scambi che avvantaggiano solo le multinazionali”. Riso asiatico, nocciole turche, conserve di pomodori cinesi, ortofrutta africana e sudamericana, arance, fragole e melagrane egiziane, olio d’oliva, olio di palma, rose kenyote, zucchero di canna boliviano: una mano tesa dalle istituzioni comunitarie a multinazionali e paesi extracomunitari che trovano così il varco per immettere sul mercato europeo prodotti altrimenti non commerciabili.
Le conserve di pomodoro cinesi, ad esempio, spiega Coldiretti, nascono dallo sfruttamento dei lavoratori dei laogai, i campi agricoli lager, ancora attivi nonostante l’annuncio della loro chiusura. Fra i maggiori importatori c’è l’Italia con le importazioni che nel solo 2016 sono cresciute del 43%, pari a circa 100 milioni di chili e al 10% della produzione nazionale di pomodoro fresco. “In questo modo” denuncia Coldiretti “c’è il rischio concreto che il concentrato di pomodoro cinese, magari coltivato da veri e propri schiavi moderni, venga spacciato come Made in Italy sui mercati nazionali ed esteri per la mancanza dell’obbligo di indicare in etichetta la provenienza”.
Le politiche comunitarie hanno avuto un occhio di riguardo anche per il riso straniero, con l’Italia che nel 2016 ha registrato un’importazione record di riso orientale a tutto danno dei risicoltori italiani. “L’aumento” spiega Coldiretti “varia dal +489% per gli arrivi dal Vietnam al +46% dalla Thailandia per effetto dell’introduzione da parte dell’Ue del sistema tariffario agevolato per i Paesi che operano in regime EBA (tutto tranne le armi) a dazio zero. Un regalo alle multinazionali del commercio che sfruttano gli agricoltori locali, i quali subiscono peraltro lo sfruttamento del lavoro anche minorile e danni sulla salute e sull’ambiente provocati dall’impiego intensivo di prodotti chimici vietati in Europa”.
Per nulla etiche le nocciole importate dalla Turchia, che da anni aspira a diventare paese membro dell’Unione Europea e su cui pende l’accusa di sfruttamento del lavoro delle minoranze curde. Così per nulla etiche sono le rose dal Kenya, raccolte da lavoratori sottopagati e privi di diritti; i fiori dalla Colombia, dove sono stati denunciati casi di sfruttamento di lavoro femminile; la carne dal Brasile, dove, invece, la piaga maggiore è rappresentata dallo sfruttamento del lavoro minorile; lo zucchero di canna dalla Bolivia, nelle cui piantagioni, denuncia Coldiretti, “si segnala l’abuso di stimolanti per aumentare la resistenza al lavoro”.
A peggiorare il quadro le trattative delle istituzioni comunitarie per l’importazione di prodotti ortofrutticoli del Mercosur ossia Argentina, Brasile, Paraguay, Uruguay, dove mancano adeguate norme di tutela dei lavoratori. “L’Argentina” spiega Coldiretti “che è nella lista nera del Dipartimento di Stato Americano per lo sfruttamento del lavoro minorile nelle coltivazioni di aglio, uva, olive, fragole, pomodori, ha aumentato le esportazioni di prodotti ortofrutticoli in Italia del 17% nel corso del 2016”. Dannose le banane dall’Ecuador che subiscono trattamenti chimici fuorilegge in Europa. Nè è da meno l’Egitto che “grazie alle agevolazioni concesse dall’Unione Europea” esporta, in particolare in Italia, fragole, arance e melagrane con residui chimici e, quindi, contaminate.
Infine, l’olio di palma per uso alimentare, con importazioni nella sola Italia e nel solo 2016 pari a 500 milioni di chili. “Uno sviluppo enorme” denuncia Coldiretti “che sta portando al disboscamento di vaste foreste senza dimenticare l’inquinamento provocato dal trasporto a migliaia di chilometri di distanza dal luogo di produzione e naturalmente le condizioni di sfruttamento del lavoro delle popolazioni locali private di qualsiasi diritto”.
Abbiamo parlato di:
BeAware – Best Practices against Work Exploitation in Agriculture Rapporto Video
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