Bruce Springsteen, il nostro cuore affamato e quella donna tra le sue braccia
Sessantamila cuori affamati, proprio come il suo celeberrimo “Hungry heart” che ogni volta riesce nel miracolo di accordare le note più sepolte del tuo cuore con quella tastiera che ti fa saltare in aria a ballare. Quel cuore che ti sei scordato di nutrire per chissà quanto tempo. Affamato di parole non dette, di emozioni rimandate, di sorrisi ingoiati nell’imbarazzo, di verità nascoste nel disagio di non ricordarti più chi sei. Ecco, Bruce Springsteen e i suoi concerti servono a questo. A ricordarti che hai un cuore e a farti venire voglia di sbandierarlo al cielo.
Quattro ore di musica urlata alle stelle, come l’altra sera a Roma, con la luna crescente che illuminava la scenografia più bella del mondo, quel Circo Massimo incassato tra l’Aventino e i ruderi arancioni del Palatino, laddove la città eterna è nata e dove i suoi pini secolari sembrano proteggerla in un miracolo che vuole ancora la campagna, ostinata a resistere al centro della città: “fantastico”, ha detto il boss in italiano guardandosi intorno, mentre Roma, suprema seduttrice, apparecchiava ai suoi piedi anche il ponentino, perché niente fosse meno che indimenticabile.
Quattro ore di rock e di ballate, di storie senza tempo dove 'il fantasma di Tom Joad' può perfino incontrare l’amico scomparso 'Bobby Jean' e dove tutto diventa possibile, sentirsi nati negli Usa e cantare a squarciagola l’'Indipendence Day'. Magia del Boss, seduttore senza tempo, così semplice nei suoi eterni jeans e t-shirt nera e così efficace nel saper parlare dritto al cuore di chiunque, bambini e vecchi, donne e ragazzi, italiani così come tutti gli altri cittadini del mondo. Non c’è una donna nel pianeta che non abbia sognato per una volta di essere chiamata sul palco e di ballare tra le sue braccia sulle note di “Dancing in The Dark”. Così come il 16 luglio, durante la tappa romana del suo trionfale “The River Tour” non c’è stata una donna che non abbia sognato di duettare con lui al posto di Patti Scialfa, la sua donna, la sua chiatarrista, un microfono e due volti che si sfiorano.
Quattro ore di gioia e di lacrime, da cui esci sfinito, senza più sentire nemmeno il dolore ai reni o alle gambe perché hai saltato e cantato così tanto che ormai non senti più niente se non quel tuo cuore affamato. A lui, re di cuori, è bastata la prima canzone per stenderci tutti: voce roca e chitarra, archi e piano jazz in quella meravigliosa “New York City Serenade”, in cui tutti abbiamo sperato che la sua baby, un cuore affamato di dolore e diffidenza, per una volta si decidesse a saltare su quel treno.