Chi era Velia Matteotti, la donna che sfidò Mussolini sul processo farsa per l’assassino di suo marito
Il 10 giugno sarà passato un secolo tondo dal delitto che rese vedova Velia Titta, una donna che non fu solo la moglie del deputato socialista assassinato dal regime fascista
“Volevo solo Giustizia, gli uomini me l’hanno negata. L’avrò dalla Storia e da Dio”: sono le parole con le quali Velia Titta Matteotti rinuncia a costituirsi parte civile nel processo farsa per l’assassinio di suo marito Giacomo Matteotti. “Mi sia concesso di estraniarmi dall’andamento di un processo che ha cessato di riguardarmi… Mi parrebbe, accedendo all’invito, di offendere la memoria stessa di Giacomo Matteotti, per il quale la vita era cosa terribilmente seria. Quella memoria nella quale e per la quale, e solo per educare i figli all’esempio ed alla fermezza paterna, vivo ancora appartata e straziata”. Parole dalle quali traspare la forza di volontà di una donna che non fu solo la moglie del deputato ucciso il 10 giugno di cento anni fa.
Non solo moglie di Matteotti
Velia Titta fu poetessa, romanziera e una fine intellettuale che aveva studiato conseguendo la licenza alla Scuola Normale femminile di Pisa e aveva appena diciotto anni quando, nel 1908, diede alle stampe le poesie di “Primi versi”. Nel 1920 pubblicò il romanzo “L'idolatra” con lo pseudonimo di Andrea Rota, che suscitò ampio consenso. Poi la vita, e la morte, la travolsero.
L’incontro con Giacomo Matteotti
Aveva conosciuto Giacomo Matteotti nel 1912 durante una vacanza a Boscolungo (Abetone) e quattro anni dopo la coppia si unì in matrimonio col solo rito civile in base al desiderio del leader socialista cui Velia accondiscese nonostante la sua formazione religiosa. Dal matrimonio nacquero tre figli, Giancarlo, Gianmatteo, Isabella e l'unione fu solida, turbata soltanto dai timori di Velia per l'impegno politico del marito esercitato durante la prepotenza fascista. Già in una lettera del 7 giugno 1916 gli scriveva: "Ma tu non voler essere audace; hai dei nemici". E le lettere furono oltre seicentocinquanta in quattro anni di fidanzamento e otto di matrimonio.
Il sequestro e l’uccisione di Giacomo Matteotti
Il 10 giugno 1924 Giacomo Matteotti venne rapito e poi ucciso da una banda fascista guidata da Amerigo Dumini, uomo molto legato a Cesare Rossi, capo dell’ufficio stampa della Presidenza del Consiglio. Un uomo che frequentava liberamente Montecitorio, la direzione del Partito fascista, Palazzo Chigi e Benito Mussolini. Velia Titta sapeva la verità prima ancora di scoprirla ma la ricerca del marito rapito, o del suo corpo come in cuor suo temeva, la portò, nel pomeriggio del 14 giugno 1924, proprio dall'allora capo del governo Benito Mussolini con cui ebbe un brevissimo colloquio che resterà immortalato dalle sue parole.
L'incontro con Benito Mussolini
Velia ne scrisse in una lettera a Gaetano Salvemini, collega socialista di suo marito, parlando di un colloquio che si svolse in piedi «senza alcun protocollo, senza silenzi, senza teatralità, ma in tutta la completa atmosfera di colpa di fronte al delitto. Mussolini non era commosso, né altro. Era spettro di terrore; io non implorai; domandai con poche parole fredde e sicure, alle quali egli oppose risposte che fedelmente non ricordo, ma fredde anch’esse. Le sicure che rammento sono queste: “un filo di speranza c’è. Io farò il mio dovere di cittadino”». La vedova guardò quindi in faccia colui che di lì a breve, il 3 gennaio 1925, si assunse in un discorso alla Camera dei deputati "la responsabilità politica, morale e storica" di quanto era avvenuto in Italia negli ultimi mesi e specificamente del delitto Matteotti.
Il corpo martoriato
Il corpo di Matteotti fu ritrovato soltanto due mesi dopo, il 16 agosto, in una località del comune di Riano. Turati scrisse ad Anna Kuliscioff: «Tutto è distrutto. Non c’è più neppure lo scheletro, ma soltanto tibie, femori, costole, ossa disperse e il teschio». I dirigenti socialisti volevano farne un martire e un simbolo ma Velia volle rispettare la volontà di suo marito Giacomo di riposare a Fratta Polesine, suo paese di origine, vicino ai suoi fratelli. Voleva che, almeno da morto fosse rispettata la sua dimensione umana e di padre di famiglia ma temeva pure che un funerale a Roma avrebbe potuto produrre incidenti e altre uccisioni.
Nessun fascista al suo funerale
Velia pretese però che nessun fascista fosse presente alla partenza del feretro dalla stazione e che nessuna autorità accompagnasse la salma fino al cimitero: «Chiedo che nessuna rappresentanza della milizia fascista sia di scorta al treno, nessun milite fascista di qualunque grado o carica, comparisca, nemmeno sotto forma di funzionario in servizio. Chiedo che nessuna camicia nera si mostri davanti al feretro e ai miei occhi durante tutto il viaggio e a Fratta Polesine fino a tanto che la salma sarà sepolta. Voglio viaggiare come semplice cittadina italiana che compie i suoi doveri, per potere esigere i suoi diritti, quindi nessuna vettura salone, nessuno scompartimento riservato, nessuna agevolazione o privilegio, ma nessuna disposizione per modificare il percorso del treno, quale risulta dall’orario di dominio pubblico. Se ragioni di ordine pubblico impongono un servizio d’ordine, detto servizio sia affidato solamente ai soldati italiani».
E tutti dovettero piegarsi alla sua volontà, persino il presidente della Camera dei deputati Alfredo Rocco ed il vicepresidente del Senato Vittorio Italico Zupelli dovettero limitarsi a salutare la salma del parlamentare sul binario della stazione di Monterotondo. Le avevano ammazzato il marito, evitò almeno lo sfregio estremo dell’ipocrita cordoglio.
Il processo farsa per delitto Matteotti
Quando ci fu il processo per l’omicidio dinanzi all’Alta Corte di Giustizia, la vedova si costituì parte civile a nome dei tre figlioletti rimasti orfani ma, visto l’andamento farsesco, fu costretta a cambiare idea. Velia Titta non volle avallare il depistaggio con cui le indagini sul delitto finirono a Chieti con un rinvio a giudizio conciliante e circoscritto agli autori materiali dell'omicidio del marito.
La ciocca di capelli e la falangetta del marito
Fu anche costretta a chiedere a lungo la restituzione delle cose sequestrate nel corso dell'istruttoria: con l'istanza, scritta di suo pugno e datata 29 marzo 1926, Velia Matteotti lamentava che non le era stato ancora restituito “ciò che apparteneva al suo defunto marito” e che “si trattava di altissimo valore morale specialmente per la vedova e gli orfani del defunto… Le cose da restituire sono le seguenti: -lettera ferroviaria -una ciocca di capelli -falangetta -giacca e pantaloni (compresa la manica staccata)”.
Gli ultimi anni
Gli anni della vedovanza li passò tra Fratta Polesine, con i figli, e Roma subendo l’onta estrema dello spionaggio fascista. Il regime non la lasciò in pace e sino alla fine ne spiò la vita, provocando una dura protesta della vedova che chiedeva libertà e rispetto. Velia morì a Roma il 5 giugno 1938, a soli 48 anni, per i postumi di un'operazione chirurgica e anche per i suoi funerali, svoltisi in forma strettamente privata a Fratta Polesine, le autorità fasciste disposero un’opprimente sorveglianza. La dittatura temette questa donna volitiva anche da morta.