La vittima dello stupro disperata: “Mi hanno riconosciuta”. I social ritirano il video ma è troppo tardi
Nonostante lo scempio di un corpo violato non abbiamo messo la vittima al centro del dibattito. Il caso è diventato un talk show su cosa sia opportuno o meno, per una caccia a like e condivisioni
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Che il video dello stupro di Piacenza non andasse diffuso, da nessuna parte, è talmente ovvio e banale che stupisce doverlo scrivere e ribadire. Non serve scomodare il testo unico dei doveri di un giornalista per capire che ogni particolare che possa condurre all’identificazione della vittima non va assolutamente gettato in pasto alle belve fameliche del web in attesa, con le loro bocche aperte, della la nuova ragione di indignazione lanciata come una bistecca al sangue.
Non serve neppure essere troppo bravi per capire che un professionista non utilizza mai immagini troppo violente e aggressive a meno che non sia strettamente necessario, e non è questo il caso. Giorgia Meloni è anche una giornalista e il Messaggero è una testata che dovrebbe conoscere certe regole, eppure proprio da loro è partita la ricondivisione che ha dato il via alla diffusione massiccia di quel video sul web.
A COSA E’ SERVITO QUEL VIDEO?
Solamente ad amplificare un trauma. Come è ben facile immaginare i tempi per l’elaborazione e il superamento di uno stupro possono essere lunghissimi. Flashback, paura ad uscire da sole, stati ansiosi e stress post traumatico sono solo alcune delle conseguenze a cui le vittime di aggressioni sessuali vanno incontro. A queste si aggiungono lo stigma, la vergogna e il senso di colpa che spesso la reazione della società ci porta a provare. “Forse se non fosse uscita”, “Forse se non avesse indossato una gonna così corta”.
In questo caso di specie inoltre l’aggressore è stato arrestato in flagranza di reato, non c’era dunque nemmeno la necessità di diffondere le immagini per poter rintracciare il criminale. L’unica cosa che abbiamo ottenuto è un web colmo di urla, di immagini, di pantaloni abbassati e cosce aperte con forza. Una violenza nella violenza per una donna che, uscita dall’ospedale in cui era stata ricoverata in stato di shock, dovrà tenersi alla larga da internet, dai social, dalla stampa e dalla tv. Tra pixel e fermi immagine infatti, si parla solo di lei. Anzi, non si parla di lei, perché il suo ruolo in questa faccenda è diventato marginale, inutile. Una presenza ingombrante. Ci siamo spostati altrove, “sull’opportunità”. Nemmeno davanti allo scempio del corpo abbiamo messo lei al centro del dibattito.
Abbiamo dimenticato di discutere del dramma degli abusi, di violenza di genere, di sostegno alla vittima e di cosa voglia dire essere una donna e non avere la libertà di uscire di casa in sicurezza. Chiunque abbia preso parte alla diffusione, sia testata giornalistica o esponente politico, ha commesso un atto schifoso contribuendo a rendere riconoscibile la vittima. Ma gli altri? Chi ha trasformato l'accaduto in argomento da salotto, chi ha eliminato la vittima dall'equazione, ha eliminato il suo corpo e le sue sofferenze e ha colto il pretesto per prendere parte allo scontro squisitamente politico elettrorale sta davvero facendo meglio?
LA DIFFUSIONE DI QUESTE IMMAGINI SERVE ALLA CAUSA?
Come dice bene Jennifer Guerra in un articolo su fanpage “non è necessario guardare un video per poter riconoscere o condannare la violenza sessuale”. Non ci serve insomma vedere come si svolge una violenza per capire che va combattuta e soprattutto non servono post o articoli intrisi di retorica per posizionarsi dalla parte giusta del mondo. “L’abbraccio virtuale” non è altro che una vicinanza di facciata che allontana la vittima per avvicinare like. “I dati sulla diffusione di questo fenomeno - continua Guerra - parlano da soli e, se non fossero sufficienti, esistono moltissime testimonianze su cosa significa sopravvivere a una violenza. Tutte diverse, come sono le forme di violenza, ma tutte caratterizzate da un unico filo rosso: sono tutte state pronunciate dalle donne che le hanno subite, che hanno preso parola, che hanno deciso che erano pronte per condividere la propria storia”. Il punto fondamentale è che per poter parlare di uno stupro una donna deve sentirsi libera e pronta di poter raccontare la sua storia, non vederla e sentirla ovunque riempiendo il suo percorso di ripresa di ostacoli e talk show.
Anche Michela Murgia, interviene sui social: “Immagina quanto ti possa far star male ogni singola volta aprire un sito di informazione o una pagina di un conoscente e sapere che potresti sentire le tue grida su quel marciapiede mentre venivi violentata”. Qualcuno ricorda i casi in cui la vittima non ce l’ha fatta, non ha retto e ha deciso di togliersi la vita.
Oggi la donna violentata a Piacenza, uscita dall'ospedale si è detta disperata. Amici e conoscenti, come era immaginabile, l'hanno riconosicuta dalle immagini e dalla sua voce che implora aiuto. La Procura di Piacenza ha aperto un'inchiesta con l'ipotesi di reato di 'diffusione senza consenso di materiale riproducente atti sessuali'. Ma la storia la conosciamo bene, non basterà la Procura a ripulire il web, internet non concede mai veramente il diritto all'oblio.
Prima di diffondere un video per dimostrare la nostra indignazione, per prendere parte al dibattito “trend topic” del momento alla ricerca di like e condivisioni, prima di cercare la luce che ci illumini sulla ribalta dell’egocentrismo da social, dovremmo chiederci se stiamo offrendo una mano alla vittima o un’arma con la quale uccidersi lentamente.