La famiglia Queer rivoluzionaria di Michela Murgia ha origini in Sardegna: ecco quali
A pochi giorni dalla scomparsa dell'intellettuale Murgia viene spontaneo chiedersi quanto ci sia della Sardegna nel suo pensiero 'politico' di famiglia
A pochi giorni dalla sua scomparsa, è tempo di riflessione. Di prendere la grande eredità di pensiero di Michela Murgia e di farne un capolavoro.
I capolavori sono tali perché non perdono mai la loro potenza di messaggio. Non passano di moda ed entrano sottopelle, quasi senza che ce ne accorgiamo nella nostra esperienza umana privata e pubblica. Riescono a essere assimilati da chiunque anche senza un insegnamento diretto. Non sono roba di nicchia. I capolavori restano tali nei secoli perché sono capaci di parlare a generazioni diverse e strati sociali lontani. Per fare questo dobbiamo però oggi fare lo sforzo tutti e tutte, di capirne meglio il valore e soprattutto la portata rivoluzionaria.
L'uso della parola Queer, perché è pop
Michela Murgia era una sacerdotessa della parola, forse una delle pochissime scrittrici nella storia di questo Paese che è stata brava a comunicare, non solo attraverso i suoi libri e quindi la scrittura, ma in tutte le forme possibili di comunicazione. Quella verbale prima di tutto. Una incantatrice di serpenti, per dirla ironicamente. Un'animale da palco scenico (e comizio, ricordiamo il suo 10% alle Regionali in Sardegna senza l'appoggio di nessun partito nazionale). Ma anche una ottima esperta di social network. La sua è stata la prima generazione che ha dovuto fare i conti con Facebook, quella dei 50enni di oggi. Queer è una parola molto inclusiva, non solo per il suo significato ma perché l'inglese è la lingua delle nuove generazioni, quelle a cui si rivolge qualsiasi rivoluzione e quindi anche quella innescata da Michela, riguardo il concetto di famiglia.
Ma le rivoluzioni hanno sempre delle basi molto solide. Non sono campate per aria. Ed è per questo che dietro quel Queer c'è molta Sardegna.
La Sardegna e il ruolo fondamentale per il suo pensiero politico
Michela Murgia molte cose le ha pensate, elaborate, assimilate, scritte, dette e poi divulgate anche perché era sarda. Dentro la sua idea di famiglia c'è davvero tanto della sua terra.
Scrive molto bene l'antropologo Nicolò Migheli: Michela Murgia in limine mortis ha fatto una scelta che ha colpito chi non sa, ignora. Ha investito i suoi risparmi nell’acquisto di una casa che doveva servire a una comunità queer, che altro non significa che eccentrico, bizzarro, insolito. Ha usato quel termine inglese perché colpisse il pregiudizio. O almeno credo sia così. Quelle coabitazioni tenute insieme dai rapporti, dalle frequentazioni e dalla mutua affettività, hanno una storia lunga nella tradizione sarda. Chi ha qualche anno le ricorda, composte da coppie, fratelli, sorelle vecchi spesso senza legami diretti di parentela e personale dipendente, ove vi era. Questi ultimi pienamente integrati nella famiglia estesa. Forma coabitativa che dal migliore Sessantotto è stata rappresentata dalle comuni. Oggi ne vediamo la riproposizione nel cohousing, unità abitative dove convivono vecchi e giovani prestandosi reciproco aiuto. In una società individualista, da folla solitaria, la scelta ultima di Murgia rompe cliché accettati come normalità. Quindi dove è lo scandalo? Solo della trave nel proprio occhio.
Chi sono i Fillus de anima
I figli dell’anima, tradotto in italiano, erano fino a pochi anni fa una costante in Sardegna. Una sorta di istituto di un diritto d'amore non scritto, praticato nell’Isola un po' da chiunque. Si trattava di un affidamento volontario di uno o più bambini, da parte dei genitori biologici, ad altri adulti, appartenenti o meno alla propria rete familiare di sangue. Il ruolo di sangue non era dunque necessario. Ma quasi sempre erano membri della medesima comunità, questo perché il legame con la famiglia biologica appunto non si rompeva ma si apriva alla possibilità di essere amati e curati da più persone oltre a coloro che li avevano generati. Questa consuetudine è rimasta viva anche oltre l’introduzione del nuovo diritto di famiglia (1975). Attualmente è quasi del tutto scomparsa ma è rimasta l'espressione “pigai a fill’e anima” cioè prendere come figlio dell’anima, ovvero prendersi cura o prendersi “a cuore” le sorti di qualcuno più giovane di noi.
Il concetto di Matriarcato per Michela Murgia
Nella sua ultima intervista su Vanity Fair, Murgia racconta bene questa grande bugia parlando di sua nonna: "Il suo era un modo di esercitare il potere femminile dentro al patriarcato che per molto tempo ho scambiato per matriarcato, invece è un patriarcato 2.0 e si chiama matricentrismo, regge tutto il sistema a patto che ci sia una donna a fare il pilastro su cui si scarica tutto il peso. Mia nonna lo faceva volentieri. Diceva: le chiavi di casa le ho io. E io pensavo: sì, nonna, ma non esci mai. Esci solo per andare in chiesa. E già da piccola mi è stata maestra in questo: c’è un potere che ti imprigiona se tu accetti che quello sia l’unico potere che ti danno, e non vuoi rinunciarci perché fuori non ne vedi altri. E il modo in cui lo eserciti fa sì che tu stessa abbia le chiavi della gabbia da cui non puoi uscire. Il primo insegnamento da bambina l’ho avuto da lei: come fare a diventare potente senza essere schiava del potere".
Oltre alla sardità dei suoi capelli, come aveva scherzato alcune settimane fa, rasandosi per accelerare la caduta naturale, in Michela Murgia, nella sua concezione di amore, di comunità, di famiglie che è il primo nucleo sociale umano e di libertà e di emancipazione femminile c'è moltissimo della tradizione sarda. Le radici devono restare solide se si vuole grattare il cielo. Murgia ha grattato il nostro intelletto. Ci ha costretti e ci costringerà ancora a pensare, voler capire e voler cambiare. Disubbidire come Eva con la mela.
In basso due scatti di Michela nella sua Cabras (foto Ansa)