'Ti senti maschio, femmina o altro?' Le domande ai bambini fanno insorgere i genitori

Un test per valutare come i bimbi si sentissero nel proprio sesso è stato sottoposto alle elementari britanniche. Il parere della nostra esperta

Ti senti maschio femmina o altro Le domande ai bambini fanno insorgere i genitori

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La distribuzione di formulari destinati a bambini di 10 anni per chiedere loro se si sentano a proprio 'agio' nel genere sessuale in cui sono nati hanno generato polemica in Gran Bretagna. L'iniziativa pilota, lanciata dal sistema sanitario nazionale (Nhs) a partire dal sesto anno delle scuole primarie, è stata contestata da varie famiglie e denunciata dal conservatore Daily Telegraph come un prematuro 'sondaggio sulla transessualità'.

Le domande

Fra gli interrogativi del questionario, compare la domanda: 'Ti senti a tuo agio nel genere con cui sei nato (maschio o femmina)?'. Mentre più in basso i bambini possono indicare quello che ritengono essere il loro 'vero genere', con tre opzioni disponibili: boy, girl oppure other. Stando a fonti dell'Nhs, l'intenzione è 'capire meglio' la psiche dei bambini per dar loro 'sostegno', ma per il Telegraph non è chiaro se e in che termini gli scolari saranno avvicinati sulla base delle loro risposte. Mentre diversi genitori contestano apertamente questo approccio come 'intrusivo' e fonte di possibile 'confusione' a quell'età.

Abbiamo chiesto a Maria Zurzolo, psicoterapeuta, sessuologa e terapeuta EMDR, se i genitori britannici fanno bene a preoccuparsi e se in Italia potrebbe accadere una cosa del genere.
“Io penso che non ci sia niente di inopportuno nel rivolgerla a bambini di 10 anni domande simili. A quell’età l’identità di genere è formata e non può essere una domanda a provocare in loro confusione. Piuttosto la confusione e il disagio ad essa collegato sono frutto del sentirsi non appartenenti e in sintonia nel proprio corpo e nell'essere biologicamente definiti come maschio o femmina. Forse la paura dei genitori sembrerebbe essere più legata alla questione dell’orientamento sessuale, ma identità di genere e orientamento sessuale sono due aspetti della sessualità completamente diversi. La sessualità di un individuo è una costruzione multifattoriale e bisogna assolutamente diversificare tra ciò che è il sesso biologico, l’identità di genere, il ruolo di genere e l’orientamento sessuale”.

Ma qui la domanda era proprio “ti senti bene ad essere nato maschio o femmina”?
“Chiedere se si sentano a proprio agio nel loro sesso non ha nullo di inopportuno pure se ai genitori può sembrare strana la domanda. E poi parlarne è sempre meglio che non parlarne. Perché avere già un quadro preventivo di quella che potrebbe essere un’eventuale difficoltà, può essere un elemento in più per genitori e insegnanti nel cercare di rendere la vita sessuale del futuro adulto il più possibile sana. Già a due-tre anni un bambino è in grado di dire ‘sono maschio o sono femmina’: l’appartenenza, il sentirsi bene nel proprio corpo è un qualcosa che il bambino percepisce e che si consoliderà più tardi nella pubertà, ma è già presente a 10 anni ed eventualmente potrebbe anche essere già presente una non corrispondenza tra sesso biologico e identità di genere, quella che noi definiamo una disforia di genere, termine che ha sostituito nel DSM V il 'disturdo di identità di genere', considerandolo appunto come un disagio e non più come un disordine sessuale”.

Quindi lei tranquillizzerebbe i genitori britannici?

“Sì, la domanda ha l’obiettivo di definire eventuali problematiche di un bambino che in quel momento non si senta di appartenente al suo sesso biologico. Il quesito in sé non dovrebbe scuotere nessuno, non possiamo ragionare nei termini di ‘non ne parliamo così non gli verrà mai in mente il problema’. Non è così, l’identità di genere non si manifesta perché ne parliamo. Si forma indipendentemente rispetto alle domande poste o non poste. Il non chiedere e il non interessarsi conferma invece il tabù sulla sessualità”.

Ma non pensa che sarebbe più opportuno osservare e semmai intervenire in modo mirato, piuttosto che fare domande così a tappeto?
“In effetti l'evidenza di una disforia di genere non può emergere da una semplice domanda, ci sono dei criteri per capire se siamo in presenza di un disagio, soprattutto l’analisi comportamentale. Una semplice domanda può aiutare ma non basta. Come metodologia per avere un chiaro quadro rispetto alla prevenzione di eventuali difficoltà ovviamente ha poco valore. Va calata all’interno di un’osservazione più vasta, ma può essere un inizio”.

E in Italia?

“Abbiamo un gap rispetto al resto d’Europa legato alla nostra cultura e alla morale cattolica dominante. Le cose qui sono molto più difficili da far progredire in questo senso, ma stiamo facendo molti passi avanti, ci sono tante realtà dove queste difficoltà si studiano e si affrontano disforie di genere anche in età infantile. In ogni caso un questionario come quello sottoposto in Gran Bretagna ai bambini, qui genererebbe sicuramente molto più clamore e polemiche”.

19/12/2017
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