La pugile rifiuta l’incontro con l’avversaria transessuale e perde il titolo. Istinto di sopravvivenza o discriminazione?
La boxer Katia Bissonnette si è ritira dalla competizione dopo aver scoperto, un’ora prima dell’incontro, che la sua avversaria è transessuale. “Gli uomini colpiscono il 163% più forte”
Il dibattito sulla partecipazione delle transessuali (nate con sesso maschile ma in transizione, o a transizione ultimata, verso il genere femminile) alle competizioni sportive femminili è aperto da tempo, come confermano anche le recenti dichiarazioni di Martina Navratilova in proposito. Stavolta si tratta di pugilato e non di tennis però, con la boxer Katia Bissonnette che ha perso il match prima di salire sul ring per essersi rifiutata di battersi con chi ha ritenuto biologicamente più forte in un incontro da lei considerato impari. La pugile era stata informata solo un'ora prima del match che la sua avversaria era una donna transgender: Mya Walmsley.
Chi nasce uomo è più forte
Katia Bissonnette avrebbe quindi perso il titolo di vincitrice ancor prima di fronteggiare l’avversaria per la mancata sostituzione con un'altra atleta. Come riporta il Daily Mail, non c’era infatti nessuna concorrente che potesse gareggiare nella loro classe di peso al Campionato provinciale dei Guanti d'Oro 2023, a Victoriaville, in Quebec (Canada). Katia Bissonnette ha motivato il suo rifiuto a combattere contro una donna transgender perché preoccupata per la sua incolumità, paura giustificata da uno studio dell'Università dello Utah che afferma come gli uomini possano colpire il 163% più forte delle donne. Senza contare che la scatola cranica di una donna, e la struttura in generale, è diversa da quella di un uomo perché le ossa sono meno spesso, soprattutto quelle della mandibola che sopportano molti colpi nel pugilato. «Dovrebbero esserci due categorie: maschile e femminile biologico - dice la boxer Katia Bissonnette -. Le donne non dovrebbero sopportare i rischi fisici causati da un uomo».
La replica
La risposta dell'avversaria, risultata vincitrice del match per la rinuncia della sfidante, è in linea con le prese di posizione della categoria che vede discriminazione dove invece si potrebbe essere semplice istinto si sopravvivenza. «Questo tipo di comportamento espone gli atleti al rischio di essere esclusi o di ricevere attacchi personali basati su dicerie - ha ribattuto Mya Walmsley, come riporta il Daily Mail -. Temo che questo tipo di accuse possano eventualmente servire a delegittimare le atlete della categoria femminile».
Nonostante il Comitato olimpico internazionale consenta alle donne transgender di competere nelle categorie femminili - se i livelli di testosterone non superano una determinata soglia specifica -, Mya Walmsley si oppone a questi protocolli che reputa invasivi e arbitrari per salire sul ring. Resta il fatto che le differenze biologiche e il vantaggio che madre natura attesta a volte (non sempre) chi nasce uomo non si annullano con le cure ormonali né con i cambi di genere all’anagrafe. Forse in merito sarebbe il caso di ponderare e mettere a confronto ideologia con studi scientifici, e magari decidere a seconda degli sport.