La straordinaria storia di un gruppo di sopravvissuti al genocidio: cos'è la famiglia d'elezione

Non hanno legami di sangue ma condividono un segreto causato dalla cattiveria degli uomini: nove ruandesi che vivono in Italia svelano il legame fortissimo che li unisce. Il libro di Pietro Veronese

Foto Ansa

di Stefano Miliani

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Siamo sicuri che l’unica forma di famiglia possibile sia quella biologica? Che non se ne può creare una ad arte sorretta da forti affetti e da mutua solidarietà? Fossimo nati in Ruanda ripenseremmo a fondo un simile convincimento. Per averne un’idea risaliamo a uno dei momenti peggiori della storia umana. (Leggi qui)

Il genocidio ruandese da un milione di morti

Dopo tre anni di guerra civile, un fragile accordo, tra violenze e omicidi crescenti il 6 aprile 1994 due missili abbattono l’aereo con a bordo il presidente Juvénal Habyarimana mentre atterra nella capitale del paese centrafricano Kigali. Il 7 aprile si scatena un genocidio spaventoso che in appena cento giorni, fino al 4 luglio, provocherà oltre un milione di morti, quasi tutti dell’etnia Tutsi più almeno 70mila Hutu uccisi perché “avevano rifiutato di unirsi alla strage”. Ricorda questa immane catastrofe con relativa contabilità della morte il giornalista Pietro Veronese in “La famiglia. Una storia ruandese” (Edizioni e/o, 224 pagine, 18 euro): un libro che tanto sconcerta sulla ferocia umana quanto infonde perfino fiducia. Suona paradossale? Proseguiamo e si capirà meglio.

Le testimonianze dei sopravvissuti

Attraverso testimonianze di sopravvissuti arrivati in Italia Veronese riepiloga quella mattanza terrificante che il mondo preferì ignorare invece di fermarla. Tra i responsabili dell’odio tra le due etnie l’autore ricorda le politiche colonialiste del Belgio, tuttavia editore e autore hanno intitolato il titolo “La famiglia”. Di quale famiglia parla? Non sono ricordi di persone sopravvissute come le cinque donne, Grace, Léonie, Mimì, Yvonne (Kazungu) e Honorine, ritratte nella foto scattata a una presentazione a Roma? Lo è eppure è anche altro. 

Una “famiglia d’elezione” non è quella biologica

La famiglia del titolo non è biologica, è una “famiglia d’elezione” formata tra sopravvissuti: un fenomeno di sopravvivenza affettiva e psicologica ancor prima che materiale nato in Ruanda tra chi aveva perso tutto, madre, padre, sorelle, fratelli, zii e zie, nonni. Solo chi lo ha provato può avere vera contezza del bisogno sconfinato di ritrovare un tessuto familiare per superare il baratro interiore, pertanto gruppi di persone senza legami di sangue tra loro hanno riformato nuclei dove ognuno assumeva un ruolo, vuoi quello del padre, della madre, dei figli e così via. 

Nove persone si raccontano

A raccontarsi al giornalista sono dunque nove persone arrivate o transitate in Italia che hanno composto una “famiglia”. Per amor di chiarezza l’autore le elenca all’inizio, come un testo teatrale, in “ordine di apparizione”. Leonie Uwanyrigira, Yvonne Tangheroni Ingabire detta Kazungu, Uwasa Beate chiamata Betty e Grace Nadine Umuhire vivono a Roma; Muhimpundu Armella detta Mimì risiede nella provincia romana; Muyambere Honorine e Jean-Pierre Nkuranga Kagabo si sono sposati e abitano nella provincia di Milano; il sacerdote Bucyana Luc ora vive in Svizzera ed è il “decano” della famiglia; lo psicologo e videomaker Gakwaya Albert risiede in Belgio. Dei nove Betty è uscita dal gruppo, non esiste l’obbligo di restare. Altro dettaglio: il ruolo non è necessariamente dettato dall’età.  

“La ‘famiglia’, una cosa bellissima: non ero più sola”

Con una riuscita formula narrativa Veronese intreccia le testimonianze seguendo il filo dell’argomento. A pagina 162 Grace descrive la sua prima “famiglia d’elezione” all’università di Kigali: “Per me fu subito una cosa bellissima. Non ero più sola. Con gli altri ragazzi facevamo tutto insieme, piangevamo anche insieme. Eravamo legati come fratelli di sangue. La nostra mamma si chiamava Cécile, ci coccolava come fossimo figli suoi. Noi eravamo già grandicelli, ma lei si preoccupava ugualmente per noi. […] Noi a nostra volta ci occupavamo di aiutare i più giovani, quelli che andavano alle medie o alle superiori. Ogni Famiglia dell’università seguiva una Famiglia di liceali. Controllavamo che avessero il materiale scolastico, li aiutavamo nei compiti”. 

“Se hai problemi, i ‘familiari’ sono presenti”

In quel processo in Ruanda sono essenziali associazioni come l’Aerg, l’Associazione degli studenti sopravvissuti al genocidio, o il Gaerg, di studenti già laureati. Appena entrata al Politecnico di Kigali, il Kist, “feci domanda per essere ammessa all’Aerg – ricorda Honorine – Venni assegnata a una famiglia come semplice figlia. La nostra famiglia si chiamava Inshuti, cioè amici. Ogni famiglia ha le sue regole. Noi ci riunivamo ogni quindici giorni durante la pausa pranzo. Eravamo così solidali che sembravamo davvero fratelli. Se arrivavi a fine mese senza soldi, non avevi difficoltà a trovare qualcuno dell’Aerg che te li prestasse. C’era chi ti aiutava se avevi problemi di salute”. I “familiari” partecipano tanto a fatti pratici come a passaggi essenziali, sia lieti come i matrimoni come le sepolture di parenti uccisi. “Ogni volta che serviva la famiglia, noi della ‘famiglia d’elezione’ eravamo presenti”, conferma Honorine.  

Léonie: “Così divenni Mama Giulia”

Quello che volevo era proprio una famiglia – confessa Léonie a Veronese – Mi mancava tanto la mia ed ero pronta ad andare di corsa ovunque me ne avessero offerta un’altra. Sapevo che se volevo festeggiare un compleanno avrei potuto farlo con i miei familiari, per quanto d’elezione”. La donna rievoca come è diventata la “madre”: la famiglia le organizzò una festa di nozze tradizionale, lei iniziò a interessarsi a tutti gli altri membri e, quando chi aveva il ruolo di madre dovette smettere per i troppi impegni, fu scelta lei che aveva appena avuto la primogenita Giulia: “E Luc mi disse: Mama Giulia, sarai tu la madre di tutti noi. Non me l’hanno chiesto, me l’hanno comunicato e basta”. “L’obiettivo delle ‘famiglie d’elezione’ è mettere insieme persone che condividono un segreto causato dalla cattiveria degli uomini – dice Albert a Veronese – Lo scopo non è coltivare l’odio o cercare la vendetta, ma farsi carico gli uni degli altri”. 

Mimì: “La Famiglia c’è, pensai, e mi aiuta”

Non sempre è tutto rose e fiori. In Ruanda la Tutsi Mimì manifesta i suoi dubbi; per lei distinguere tra Tutsi e Hutu come richiesto dall’Aerg non reggeva, aveva care amiche Hutu, tuttavia amicizie simili non erano viste di buon occhio per cui lei rifiutò l’invito a entrare in una famiglia. Una volta a Roma accettò pur se, ammette, “chiamarla Famiglia mi sembrava un’esagerazione”. Cambierà idea. Studiava all’università sennonché spese i soldi necessari a pagare l’ultimo semestre per gli esami clinici della sorella incinta. Mimì cercò lavoro disperatamente, lo trovò come “dialogatore”, chi davanti ai supermercati chiede di sostenere una buona causa e ottiene dinieghi come risposta ordinaria: “è un lavoro che fa stare male, tutti i giorni piangevo”. Non riuscì a continuare. Purtroppo senza tremila euro per le tasse universitarie “niente esami e niente laurea”. Il futuro era buio. L’amica Léonie mobilitò la Famiglia “e i soldi furono trovati. La Famiglia c’è, pensai, e mi aiuta. Se Léonie mi chiede di andare in cima a una montagna a spostare le pietre, io ci vado”, conclude Mimì. 

Chi è l'autore

Romano del 1952, Pietro Veronese è stato a lungo inviato per “Repubblica”, ha lavorato a lungo in Africa, tuttora firma la rubrica “Mama Africa” sul “Venerdì”. Il progetto del libro sulla “Famiglia” ha avuto il sostegno della Chiesa Valdese attraverso i fondi dell’Otto per mille. 

 

29/11/2024
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