Cancelliamo la violenza sulle donne partendo dalle parole: ecco le frasi da non dire più
C’è solo un elemento che accomuna tutte le violenze di genere ed è il linguaggio. La lingua, le frasi usate possono farci capire chi abbiamo davanti a noi
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La violenza sulle donne non è solo quella che lascia ferite, lividi, cicatrici. La potenza del film di Paola Cortellesi, C’è ancora domani, sta proprio in una scelta stilistica che è risultata vincente. Raccontare botte vere ma che non lasciano segni. Nel caso specifico del film si volevano comunicare due aspetti tipici della violenza domestica: il fatto che agli schiaffi e ai pugni ci si abitua, fino a considerare quella routine umiliante normale, e che quei segni vengono nascosti col trucco o abiti molto coprenti dalle vittime, che preferiscono isolarsi, non recandosi al lavoro o addirittura non uscendo più di casa. Restando nel luogo più pericoloso, emarginata, alla mercé del proprio aguzzino, lontano da chi può salvarla.
Ma si potrebbe cogliere un altro significato più profondo, ed è proprio che la violenza è violenza anche quando non è fisica. Ci sono le botte, fino a morire: il femminicidio. Ma ci sono anche femminicidi che prima del tragico evento non erano stati anticipati da violenza corporale. Come ci sono gli stupri che lasciano segni e altri che invece portano la vittima a non riuscire a muoversi. Una sorta di paralisi che alla fine dello stupro può non aver lasciato sul corpo della donna segni profondi e incontrovertibili.
C’è solo un elemento che accomuna tutte le violenze di genere ed è il linguaggio. La lingua, le frasi usate possono farci capire chi abbiamo davanti a noi. La lingua veicola il pensiero e lo crea, come ricorda Galimberti.
Le parole sono importanti
Quello che leggiamo, ascoltiamo e noi stessi pronunciamo, lo viviamo dentro e lo riproduciamo all’esterno con i nostri comportamenti.
Con le parole si può fare molto bene ma anche molto male. Le parole introducono o giustificano i comportamenti. E alle parole anche le più cattive ci si assuefa.
Come ci si abitua ai pugni ci si abitua anche alle parole violente e umilianti. Per questo dovremmo ripulire i nostri discorsi da frasi entrate nella nostra quotidianità che colpevolizzano, intimidiscono. Stiamo parlando di una violenza subdola di cui spesso non ci rendiamo conto e che nessuna donna non ha mai subito.
Modi di dire, battute, un linguaggio 'comune' che è a tutti gli effetti una forma di violenza psicologica disintegra l’autostima delle donne. Con le parole rafforziamo pregiudizi, giustifichiamo atteggiamenti aggressivi.
Questa battaglia sulla lingua e una narrazione sana per esempio delle relazioni affettive è esclusivamente culturale. Da vincere prima dentro noi stesse e poi nella nostra famiglia, nel luogo di lavoro, nella scuola e all’università, fino allo Stato.
Servono donne e uomini per modificare questo linguaggio che è specchio del nostro Paese. E di quello che pensiamo delle donne, da uomini e da donne (le donne non sono immuni da una lingua sessista e violenta).
Ecco una lista di espressioni che dobbiamo lasciarci alle spalle tutte e tutti
In amore, espressioni come “Sei mia”, “O con me o con nessun altro”, "Perché non hai risposto subito al telefono?" o ancora il controllo su come scegliamo di mostrarci agli altri: “Così vestita/truccata non esci”.
Ci sono poi espressioni utilizzate nel mondo del lavoro che sminuiscono le capacità delle donne. “Questo lavoro non è adatto a una donna” o “Datti ai fornelli”. Ancora il terribile: “Con chi sei stata per fare questo lavoro?” . Ma è è pessimo anche “Una donna con le palle” come a dire che se sei competente e forte è perché assomigli a un uomo, perché solo gli uomini hanno questi talenti. Oppure anche “La mia capa/collega è acida, avrà il ciclo” è un altro esempio.
Ma con le parole si può fare ancora peggio come cancellare l’autostima. Il maltrattante le umilia al punto da distruggere la loro capacità di reagire. Come "Stai Zitta, a nessuno importa quello che dici", "Nessuno ti crederà" o ancora "Sei pazza, non è mai successo, ti inventi tutto".
Ancora parole con cui farci sentire in colpa o minacciarci: "Se mi lasci, mi uccido", "Se lo dici, ti ammazzo", “Se provi a sentire ancora X (amico/collega), vedrai che succede”.
Si parla spesso anche di vittimizzazione secondaria. Si tratta di un modo con cui si giustifica il movente del reato, un femminicidio o uno stupro, gettando sulla vittima la responsabilità dell’accaduto: "L’hai provocato”, "Cosa indossavi?", “Eri ubriaca”.
Il ruolo della stampa nella narrazione della violenza è importante. Femminicidi raccontati come “delitti passionali”, “raptus” per “troppo amore” o gelosia che “acceca”. O ancora l’empatia nei confronti dell’aggressore: “Sportivo, credente e ottimo lavoratore: il ritratto di X”.