Molestata al primo impiego a soli 19 anni da un uomo di 75: “Così ho avuto giustizia”
Ci ha impiegato 10 anni, ma alla fine Denise Galli ha visto il suo aguzzino condannato in Cassazione
A 19 anni era contentissima di iniziare a lavorare e rendersi indipendente. Come racconta Il Corriere della Sera, Denise Galli, pistoiese, pensava a quanto era stata fortunata a trovare così in fretta il suo primo impiego. Certo il datore di lavoro era stranamente gentile con lei, lei aveva fatto il colloquio di lavoro in una specie di cantina, ma lei aveva 19 anni e lui 75. La giovane Denise lo vedeva come un nonno. Invece Mario Romano, titolare della ditta di poste private L. H. Expressl, non doveva avere in mente esattamente un rapporto nonno-nipote visto che dopo 10 anni e tre gradi di giudizio Denise e una sua collega, Michela B. che all’epoca del fatti aveva 24 anni, hanno ottenuto giustizia.
La condanna
Nel 2012, quattro anni dopo le molestie, il Tribunale di Pistoia ha condannato il loro datore di lavoro a risarcirle rispettivamente con 25 mila e 40 mila euro: una sentenza che ha fatto storia e ha segnato una svolta nella tutela delle donne molestate sul lavoro. «Adesso Romano risulta nullatenente — dice Denise ora 29enne —. Tutte le case di cui si vantava con noi le ha vendute durante il processo. Quindi gli hanno solo pignorato una quota della pensione, io ricevo 100 euro al mese. Eppure sono contenta, e rifarei tutto». Anche se la storia ha lasciato duri strascichi nella sua vita: «Per mesi non ho lasciato che nessun uomo mi avvicinasse a meno di un metro, avevo il ribrezzo», ricorda.
Dalle attenzioni alle molestie
Denise, neodiplomata, arrivò alla L.H. nel 2008 tramite un centro per l’impiego. «Già il colloquio fu bizzarro, al buio, in una specie di cantina, con lui che aveva atteggiamenti strani. Mi prese subito e iniziai l’indomani. Mi copriva di attenzioni: aveva 75 anni, io 19, e le lessi come premure paterne, anzi, da nonno. Un regalino al mio compleanno, cioccolatini, lodi. Quando andava in trasferta insisteva per portarmi con sé, in auto. All’inizio parlava solo di sé e dei suoi traguardi: la barca a Portofino, 12 metri, la villa al mare. Poi iniziò a toccarmi. Se lo respingevo, si bloccava. Ma la volta dopo rifaceva uguale. Io non volevo parlarne: mi vergognavo, come se avere accettato le sue attenzioni, pur senza intenderne la natura fino in fondo, mi avesse resa complice. Un giorno, in ufficio, mi baciò sulla bocca, o meglio ci provò perché io riuscii a divincolarmi. Lui scappò».
Il licenziamento
Da allora il modo in cui Romano la trattava cambiò: «Iniziò a farmi contratti brevissimi, come era uso in quell’ufficio, senza vincoli di orario e di mansione. Quando mi misi in malattia, perché mi ero lussata una spalla: a casa mi arrivò una lettera che diceva che ero licenziata per gravi mancanze. Non ne avevo mai commesse». Il licenziamento, come tutti i provvedimenti preceduti da molestie sessuali sul lavoro, fu poi considerato nullo ma intanto Denise si rivolse alla Cgil che aprì una vertenza. Al sindacato scoprì di non essere la sola dipendente dell’azienda ad avere subito molestie: altre due colleghe, assunte nel frattempo alla L.H., avevano gli stessi problemi. Una di loro è Michela B., che poi sporgerà denuncia insieme a Denise e che tra gli elementi probatori porterà una registrazione da cui emergono le avances di Romano e i rifiuti di lei.
L’importanza della Consigliera di parità
Grazie al sindacato, le due ragazze entrano in contatto con l’allora Consigliera di parità regionale, Wanda Pezzi, ed è anche per il suo ruolo che il loro caso diventa così importante. Pezzi, che è un pubblico ufficiale e ha potere di indagine, chiede all’Ufficio del lavoro i dati sul personale dell’azienda e scopre che, mentre i dipendenti maschi rimangono a lungo, per le donne c’è un ricambio assai rapido. Come si legge nella sentenza di Cassazione di novembre 2016, c’è «un serrato turn over tra le giovani dipendenti assunte dall’odierno ricorrente, che dopo un breve periodo di lavoro si dimettevano senza apparente ragione».
I collegi tutti a favore del datore di lavoro
Denise e Michela, assistite dall’avvocata Marica Bruni, denunciarono e la giustizia fece il suo corso. In tribunale fra i vari colleghi arruolati come testimoni della difesa per smontare le loro tesi, arrivò anche l’unico che, all’inizio, aveva invece incoraggiato Denise a denunciare. La giudice Elisabetta Tarquini, però, forte dei dati statistici chiamò a testimoniare tre ragazze a caso tra quelle che avevano lavorato nell’azienda e poi l’avevano lasciata all’improvviso. Due di loro descrissero atteggiamenti da parte del datore di lavoro simili a quelli raccontati da Denise e Michela. La terza sosteneva di non aver subito niente e di essere all’oscuro di tutto, di essersene andata perché aveva trovato un lavoro migliore. Dalle indagini emerse però che era rimasta disoccupata e poi aveva lavorato come babysitter: la testimonianza contraria diventò così un indizio a favore delle vittime e la giudice decise di condannare il datore di lavoro. Lui fece ricorso in Appello e Cassazione, ma perse. Una volta tanto giustizia fu fatta.