Giorgio Lupano e la sordità: 'Sono gli udenti ad avere un deficit'
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Sordi e udenti: due universi paralleli che finalmente si incontrano e riescono a integrarsi l’uno con l’altro scoprendo una lingua universale che è quella dell’emozione e dei sentimenti. È il tema di “Figli di un dio minore”, toccante testo teatrale scritto negli Anni 80 da Mark Medoff e raccontato al cinema, con tanto di Oscar e Golden Globe, nell’omonimo film del 1986 con William Hurt e Marlee Matlin, e in tour nei teatri italiani da due anni. “Ma continueremo anche l’anno prossimo”, ci anticipa Giorgio Lupano, che della versione teatrale italiana ne è il protagonista. Un successo di pubblico che ha del miracoloso: “Non soltanto per l’indubbio interesse su questo tema ma anche perché alle nostre rappresentazioni vengono sia sordi che persone udenti. E questa è davvero la prima volta”.
Già perché “Figli di un dio minore” è portato in scena sia da attori sordi sia da attori udenti che utilizzano la lingua dei segni. Lo stesso Lupano, che intervistiamo proprio mentre in questi giorni lo spettacolo attraversa la Sardegna facendo tappa ad Alghero, Ozieri, Nuoro e Arzachena, ha studiato per un anno e mezzo la lingua dei segni prima di debuttare in scena nel 2015.
Che genere di esperienza è dal punto di vista professionale?
“Da un punto di vista professionale è un’esperienza unica poter condividere il palco con attori che usano un’altra lingua, che hanno un modo di pensare e un punto di vista sul mondo diverso dal tuo. Il tema dello spettacolo è quello dell’integrazione e la cosa straordinaria è che noi oltre a rappresentarlo lo mettiamo anche in atto sulla scena. Inoltre, c’è un’altra particolarità: questo testo, che è stato scritto per un pubblico di udenti, si è trasformato nella nostra versione in uno spettacolo accessibile anche ai sordi che per la prima volta in Italia possono fruire di uno spettacolo teatrale. E questo fa sì che anche tra il pubblico si realizzi l’integrazione e che si possa scoprire che l’universo dei sordi e quello degli udenti non debbano per forza essere separati ma abbiano tanti punti in comune, a cominciare dall’emozionarsi e divertirsi per le stesse cose”.
E dal punto di vista umano?
“Mi ha insegnato a guardare le cose da un’altra prospettiva, ovvero dalla prospettiva di qualcuno che ha delle caratteristiche diverse dalle tue e che quindi vede il mondo in maniera diversa”.
Mi fai un esempio?
“Noi pensiamo che i sordi siano delle persone cui manca qualcosa, perché non sentono e quindi hanno un deficit. Però, se tu ti sposti in un altro punto di vista e guardi un sordo e un udente che si incontrano scopri che mentre parla l’udente il sordo capisce perché sa leggere il labiale; al contrario, mentre il sordo parla, l’udente non capisce perché non conosce la lingua dei segni. Quindi tra i due quello che ha un deficit in questo caso è l’udente”.
È stato difficile imparare la lingua dei segni?
“È come imparare una lingua straniera. Per saperla bene ci vogliono dai tre ai cinque anni. Ma è stato molto bello avere l’opportunità di imparare una lingua così espressiva, che racconta così tanto. Specialmente per me che faccio l’attore avere a disposizione un mezzo in più per esprimersi è stato un viaggio molto bello”.
Qual è il segno della lingua dei segni che preferisci?
“La parola integrazione è un segno in cui le due mani si compenetrano, si intrecciano e si confondono e non si capisce più qual sia la destra e qual la sinistra. D’altra parte nel significato etimologico della parola integrazione c’è proprio quello di confondersi per diventare un’altra cosa”.
I tuoi colleghi sordi ti hanno aperto il loro cuore? Che cosa lamentano o di cosa vanno fieri?
“Intanto i sordi non sono una categoria ma un insieme di persone diverse. Più o meno tutti però lamentano il mancato riconoscimento ufficiale della lingua dei segni. Il che comporta che, ad esempio, se un sordo si ritrova al pronto soccorso non abbia diritto a un interprete”.
Qual è la reazione del pubblico?
“Direi emozione e grande curiosità. Questo spettacolo è come una finestra aperta per due ore su un mondo di cui non si sa nulla. C’è anche la piacevole sorptresa di scoprire l’autoironia dei sordi. Perché quando si parla di loro non è mica necessario imbastire storie tristi o drammatiche. Si può anche sorridere”.